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Conosci i nemici del design

11 Settembre 2019

Conosci i nemici del design

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Nel nostro cammino di designer ci troviamo ogni giorno ad affrontare fattori che minano il risultato finale del nostro progetto nonostante la meravigliosa intenzione, i buoni propositi, i princìpi e le virtù che mettiamo in campo. Conoscere il proprio nemico è un grande classico tra le raccomandazioni dell’aforistica guerrigliera (e del business, il che la racconta lunga su come sia intesa la sua natura).

Gli assunti

È difficile che, in una discussione su come pilotare un aereo, ci siano quantità significative di persone portate a esprimere un’opinione. Diverso è nel mondo del design; il fatto che ogni giorno ciascuno di noi abbia a che fare con, per esempio, un sito web, fa di noi automaticamente progettisti di siti web. Peggio ancora: fa di noi utenti medi, rappresentazioni universali di come la gente usa il web, quindi titolati a dare consigli generici, o peggio indirizzi, o (disastro) istruzioni su come fare una certa cosa.

I piloti sono distanti dalla realtà di noi passeggeri. Alzi la mano chi vuole che guidi io l'aereo!

“Questi piloti presuntuosi hanno perso il contatto con i normali passeggeri come noi. Chi pensa che dovrei guidare io l’aereo?” Vignetta di Will McPhail per il New Yorker, 2017.

Gli assunti sono cose come la gente non legge, l’utente naviga in questo modo, si deve vedere tutto in una schermata, “il logo deve essere grande”. Sono preconcetti pericolosi, se non li sappiamo confutare; per questo è importante avere sempre, sempre, sempre consapevolezza di quanto si sta facendo, giustificando innanzitutto a se stessi il perché delle proprie scelte. Facciamo un esperimento: prendiamo il testo più recente che abbiamo scritto e facciamo finta che davanti a noi un giudice ci chieda perché lo abbiamo scritto così. Saremmo in grado di convincerlo della nostra innocenza, delle nostre buone intenzioni? Sapremmo spiegare perché?

In una materia così impalpabile e allo stesso tempo familiare come la parola e la sua esperienza, è facile farsi trascinare in cicli infiniti di discussioni, revisioni, insoddisfazioni, se non abbiamo chiari i presupposti su cui stiamo lavorando. Tom Greever ha scritto un intero manuale sull’importanza strategica di sapere comunicare il proprio operato in qualità di designer, basandosi sulla constatazione che il modo in cui comunichiamo il nostro lavoro agli stakeholder, clienti, e altri non-designer è più critico del progetto stesso.

Gli assunti (II)

Siamo tutt’altro che soli nel nostro mestiere di designer di contenuti. Anzi, l’essere umano è la materia prima del nostro lavoro, sorgente e foce di quanto facciamo. Ci si scusi il gioco di parole per definire questa volta come assunti le persone con cui ci troviamo a rapportarci nelle aziende nostre clienti, o in quelle in cui lavoriamo: quelli, appunto, che qualcuno ha assunto. Il più delle volte non siamo in grado di scegliere le persone con cui lavorare; questo è un tema con cui fare i conti, perché non essendo il design, come l’applauso, il suono di una mano sola, se l’altra mano non partecipa rischiamo che il nostro applauso si risolva in un silenzioso e frustrante refolo d’aria.

Ciò che possiamo fare è sviluppare un’attitudine a quello che in inglese viene elegantemente chiamato on-boarding, nel senso di portare a bordo le persone. Chi ci troviamo davanti ha obiettivi che non necessariamente corrispondono ai nostri, o a quelli che attribuiremo al progetto e – attenzione – per i quali lavoreremo: potrebbe trattarsi di un neo-assunto con tanta buona volontà ma con nessuna esperienza; di un middle-manager in crescita che ha bisogno di dimostrare le sue capacità; di un dipendente di vecchia data “con delega ai contenuti” che tira alla conservazione di una poltrona comoda e saldamente ancorata al pavimento.

È fondamentale considerare la natura, gli obiettivi e le preoccupazioni di chi ci troviamo a fianco, perché senza il loro supporto, o al limite la loro neutralità, il nostro meraviglioso progetto potrebbe naufragare. Anche in questo caso essere empatici è importante: comprendere se la partecipazione al nostro progetto sia un obbligo subìto o l’opportunità della vita ci permette di modulare l’atteggiamento con cui portare a bordo i nostri temporanei colleghi.

Le politiche

Se ciascun assunto (II) è potenzialmente unico, altrettanto lo è ciascuna azienda. Il modo in cui un nostro committente considera il nostro lavoro, quale peso ha, quali sono i modi in cui lo innesta nelle proprie strategie e, dulcis in fundo, quale il valore che gli attribuisce cambia la natura stessa di ciò che facciamo, così come non è il sapore di un frutto che ne determina il gusto, ma l’incontro con il palato di chi lo mangia. Inquadrare prima possibile lo scenario in cui interpreteremo la nostra parte è fondante, a partire dalla scelta di rispondere alla richiesta di un preventivo.

Sempre per la faccenda dell’applauso che si fa con due mani, se una delle due non lavora con l’altra in modo che le quattro dita dell’una collidano con il palmo dell’altra nelle giuste velocità intensità aderenza, l’applauso risulterà debole, o addirittura non riconoscibile come tale. Noi cominceremo un lavoro che non vedremo l’ora di finire, che il cliente ci contesterà dalla prima all’ultima consegna.

Indagheremo quindi, con garbo e delicatezza, la natura della nostra collaborazione, cercando di comprendere le politiche, le procedure e le prassi entro cui ci lavoreremo.

Gli HIPPO

L’acronimo HIPPO sta per Highest Paid Person’s Opinion ed è usato per descrivere la tendenza di lasciar prendere le decisioni a chi in azienda guadagna di più.

È un acronimo pregno di significato, che esprime perfettamente il rischio di rottura di cristalli che si ha quando un corpo eccessivamente ingombrante entra in una stanza non concepita per lui. Figlio legittimo dei due nemici appena citati, è un soggetto tipicamente abituato a prendere decisioni all’interno di un’organizzazione con una cultura aziendale poco propensa alla delega, verticistica, in cui l’autorità vince sull’autorevolezza anche nei casi in cui esercitarla diventa più dannoso che utile.

Di solito si esprime in momenti brevi, intensi e drammatici, in cui mesi di lavoro meticoloso e appassionato di un team viene giudicato su criteri personali (vedi alla voce Assunti), completamente avulsi dal contesto e in assenza di partecipazione attiva al processo precedente. Il momento è tipicamente una riunione a cui il nostro HIPPO giunge in ritardo, entrando mentre parla al telefono, per poi emettere una generica e definitiva sentenza (con un velo di compiacimento) e rimettersi al telefono. Il gelo in una stanza.

È quindi importante capire chi nell’organizzazione prenderà le decisioni, approverà il nostro operato, e su quali presupposti.

Il gusto personale

È probabilmente il nemico numero uno del design. Umano, molto umano, perché nella natura del design, almeno di quello buono, c’è una semplicità spesso scambiata per ovvietà, e di conseguenza alla portata di chiunque. Salvo poi che chiunque non è un designer; ma l’auto-narrazione è sempre indulgente nella superficialità dei giudizi.

Succede insomma che a un certo punto qualcuno dica mi piace, o non mi piace. In entrambi i casi, abbiamo perso. Il design deve rispondere funziona o non funziona; va quindi impostata innanzitutto la domanda giusta, a cui rispondere con un grado di oggettività del tutto differente dell’opinione di una sola persona. Quando risponderemo alla domanda funziona lo faremo avendo prima definito cosa significhi funziona per il nostro progetto; avremo quindi condiviso obiettivi da raggiungere e parametri di giudizio (gli spietati indicatori di performance). Su questi ci confronteremo, sterilizzando scivolose dinamiche personali che potrebbero non fare il bene del risultato finale.

Impostare le domande giuste è cruciale e così portare a bordo noi stessi innanzitutto, e poi, uno alla volta, i nostri passeggeri.

Difendersi dai nemici

Intendiamoci: un progetto non è una guerra. O, almeno, non dovrebbe esserlo. Noi possiamo fare la nostra parte per creare un balletto, un’armonia di movimenti su una coreografia ben concepita, ma per farlo dobbiamo avere ben chiaro quali sono i presupposti per trasformare potenziali nemici in compagni di danza.

Potremmo definire Paul Boag un designer per designer; tramite il suo blog e i suoi libri si occupa tra le altre cose di allenare i designer e le agenzie a sopravvivere e prosperare. Abbiamo parlato del potere della domanda giusta, quella che inquadra la realtà; tra i contenuti che stanno fuori dalla sfera strettamente tecnica, Paul ha definito un set di tre domande che dovrebbero sostituire il mi piace di cui sopra, portare il dialogo fuori dalle singole personalità, dalle politiche, dai giudizi e dagli assunti, e soprattutto accogliere le persone a bordo della nostra barca.

Il suggerimento è semplice: ogni volta che presentiamo, discutiamo, consegniamo qualcosa al nostro cliente, chiediamo:

  • risponde agli obiettivi di business?
  • risponde ai bisogni delle persone?
  • corrisponde a quanto ci siamo detti fino a questo momento?

Se la risposta è sì a tutte le tre domande, tutto procede bene. Il bello è che se la risposta fosse no, la discussione che ne segue avrebbe un potenziale costruttivo inimmaginabile rispetto a un contesto in cui avessimo invece chiesto Che ne pensi? Ti piace?. Un no a qualunque di queste domande aiuta a crescere, focalizza il discorso sul perché ciò che stiamo discutendo non risponda agli obiettivi o ai bisogni che abbiamo definito, oppure in quale modo sia distante da quanto condiviso nelle precedenti fasi di progetto.

Il risultato è un ragionamento sano, su un tema specifico, basato su un’oggettività condivisa (obiettivi, bisogni, scelte validate), che può anche mettere in discussione quanto già definito, ma in ogni caso lo fa secondo un processo in cui tutti si trovano sulla stessa pagina (on the same page, amano dire gli anglofoni) e, di solito, per non più di un gradino a ritroso.

Va da sé che i presupposti per mettere in piedi un siffatto processo siano:

  • avere definito obiettivi;
  • avere definito bisogni;
  • validare costantemente, in modo condiviso, le scelte che si fanno.

Questo articolo richiama contenuti dal capitolo 2 di Content Design.

L'autore

  • Nicola Bonora
    Nicola Bonora, nell'arco di 25 anni, ha lavorato in azienda, da freelance e come imprenditore disegnando, curando, gestendo o semplicemente vendendo progetti online per realtà di ogni genere e dimensione. Il suo obiettivo è rendere semplice la complessità dei sistemi applicando processi di design. Ha elaborato un modello originale per insegnare le buone pratiche della progettazione del contenuto digitale. Oggi è Digital & UX Strategist per Websolute.

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