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Crisi online, perché scoppiano e che cosa imparare

05 Settembre 2022

Crisi online, perché scoppiano e che cosa imparare

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Sembra chiaro come evitarle, eppure le crisi online continuano a colpire aziende e personalità. Bisogna conoscersi e non sopravvalutare il pubblico.

È sempre tempo di crisi online

Un giorno era Jovanotti, il giorno dopo erano le compagnie aeree. Un giorno erano i commercianti del Vomero, il giorno dopo era Fedez. Un giorno era Burger King, il giorno dopo una crisi online riguardava Alessandra Amoroso.

L’estate appena trascorsa è stata probabilmente la più prolifica di bufere sui social (come sono soliti definirle i media) di sempre, con cadenza pressoché quotidiana e toni da vera e propria guerriglia digitale. E benché sembrino lontanissimi i tempi di Patrizia Pepe (era il 2011), di Groupalia (era il 2012) o di Guido Barilla (era il 2013), a oltre dieci anni di distanza la storia si ripete ancora oggi in modo patologico e senza soluzione di continuità per ogni minimo pretesto utile, reale o fittizio che sia.

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A finire nell’occhio del ciclone sono indistintamente brand, celebrity e politici che, da un momento all’altro, si ritrovano – colpevolmente o meno – bersaglio delle più disparate tipologie di indignazione, di odio e di violenza verbale con un unico comune denominatore: la precisa volontà degli utenti di arrecare loro un danno fisico, morale e/o d’immagine, possibilmente permanente o letale.

Minacce, vulnerabilità e altri disastri

Eppure, quali siano le best practice da adottare per prevenire o per attutire l’esplosione di un conflitto in Rete dovrebbe essere ormai noto a tutti, complice anche la generosa letteratura di settore (tanto in termini di casi studio quanto di fonti di approfondimento) che si è sedimentata nel tempo.

Ma allora perché scoppiano ancora le crisi online? Qual è il motivo per cui, pur sapendo esattamente cosa fare, non riusciamo (quasi) mai a evitare che il peggio si compia?

In primo luogo, perché buona parte della letteratura di settore ci ha abituato a identificare come cause di una crisi solo i suoi singoli e specifici agenti scatenanti – calamità, incidenti, scandali, consumatori o dipendenti insoddisfatti, hater, fake news o errori di comunicazione vari ed eventuali – anziché l’intera configurazione di sistema che consente a quella crisi di divampare e propagarsi oltremisura.

Per provocare un conflitto, infatti, un agente scatenante è condizione necessaria ma non sufficiente. Occorre anche che l’obiettivo da colpire sia viziato da una qualche forma di vulnerabilità che ne scopre il fianco, ovvero un gap strutturale (connaturato a flussi, processi, prodotti e/o servizi), relazionale (connaturato al rapporto con clienti, employee, media e stakeholder in generale) o gestionale (connaturato a risorse e strumenti) che trasforma la minaccia – l’agente scatenante, appunto – in un rischio. In questo senso non è la minaccia in sé l’effettivo fattore di pericolo, bensì le vulnerabilità che, di fatto, la attivano: un fiammifero acceso lanciato in una sterpaglia comporta un rischio completamente diverso da un fiammifero acceso lanciato in una piscina.

Il problema di fondo è che quasi mai siamo consapevoli delle nostre vulnerabilità. Vuoi perché tendiamo a non indagarle, vuoi perché tendiamo a non ammetterle o vuoi perché tendiamo a non ritenerle un problema per la nostra sicurezza, è piuttosto raro che una strategia di risk e crisis management preveda in prima istanza che vengano esplorati e razionalizzati i nostri punti deboli. Con l’effetto, invece piuttosto frequente, che risultino molto più visibili a chi vorrà sfruttarli contro di noi.

La fabbrica delle illusioni che favorisce le crisi online

Proprio come in una combustione, affinché la reazione si manifesti, oltre all’innesco (l’agente scatenante) e al combustibile (le vulnerabilità) serve però un terzo elemento: l’ossigeno. E l’ossigeno di tutte le crisi online sono i bias cognitivi, diffusi tanto tra i brand e i personaggi pubblici quanto tra gli utenti.

Tecnicamente, un bias cognitivo è un errore di valutazione determinato dalla semplificazione di un ragionamento la cui complessità, per sua natura, richiederebbe un tempo di elaborazione ritenuto eccessivo. Soprattutto nelle situazioni in cui il volume di dati è troppo elevato o insufficiente, quindi, il cervello imbocca scorciatoie di comfort agevolate da pregiudizi e stereotipi che gli consentono di arrivare da una premessa A verso una conclusione B in maniera diretta senza percorrere le mille tortuosità proprie del pensiero critico.

Nel complesso, i bias cognitivi conosciuti risultano addirittura centinaia. Tra questi, quelli che più degli altri forniscono ossigeno ai conflitti in Rete dalla parte degli utenti sono:

  • il bias di ancoraggio, che porta a valutare uno scenario sulla base della prima informazione che se ne è acquisita (per esempio, se in un individuo insorgono reazioni avverse a un farmaco, riterremo quel farmaco responsabile di tutte le medesime reazioni avverse per qualunque altro individuo);
  • il bias di conferma, che induce ad accettare, all’interno di un paniere di informazioni, soltanto quelle che rafforzano un preconcetto di partenza (per esempio, quando si ritengono vere le presunte prove manipolate di una fake news anziché le sue effettive smentite scientifiche);
  • il bias di scelta, che spinge a giustificare in modo coatto un’azione e/o un’opinione dettate unicamente dall’emotività o dall’impulso (per esempio, ogni volta che uno hater trasfigura il proprio odio congenito in una missione di natura religiosa, scientifica, economica, morale e/o etica);
  • il bias di proiezione, che illude che ciò che si pensa o si fa sia ciò che pensa e fa la maggioranza (per esempio, nel momento in cui leggiamo commenti come Ormai non vi compra più nessuno oppure Lo dicono tutti);
  • la social proof, che stimola a prendere decisioni che altri (tanti) hanno già preso prima (per esempio, unirsi a una discussione che è tra i trending topic perché sta già coinvolgendo migliaia di persone).

Il punto è che, nelle slide di profilazione del target che popolano le nostre presentazioni strategiche, questo genere di comportamento viene sistematicamente sottaciuto (il che, a sua volta, è un bias cognitivo). Per noi, il concetto di pubblico dev’essere necessariamente positivo e rassicurante: chiunque rientri nel nostro radar ha sempre un livello culturale medio/alto, compie sempre scelte giuste accuratamente ponderate, è sempre inserito in un contesto virtuoso circondato da affetti sinceri, ha sempre mille obiettivi e mille passioni, ci vuole sempre un bene dell’anima e pensa sempre che gli serva proprio il nostro prodotto o il nostro servizio per raggiungere il Nirvana. Magari gli manca il tempo e ha bisogno di una coccola ogni tanto (questo sì), ma non sia mai che possa essere affetto da bias cognitivi che, di un punto in bianco, lo portano ad augurarci ogni peggiore sciagura solo perché abbiamo alzato di qualche euro il costo di un abbonamento.

Un nuovo paradigma

Dunque, come dicevamo, nemmeno noi stessi (in quanto brand o personaggi pubblici) siamo immuni ai bias cognitivi. Che molto spesso, facendoci idealizzare l’attitudine dei nostri interlocutori di riferimento, ci portano ad adottare un approccio sbagliato nei confronti delle crisi online per almeno tre motivi ricorrenti:

  • la convinzione che a noi non capiterà mai quello che capita agli altri;
  • la convinzione che, quand’anche dovesse capitarci, saremmo comunque in grado di risolverlo facilmente (tanto più se siamo dalla parte della ragione);
  • la convinzione che, quand’anche dovesse capitarci e non fossimo in grado di risolverlo facilmente, non succederebbe comunque niente di male perché la Rete non è il mondo reale.

A ciò aggiungiamo che, come popolazione, non abbiamo esattamente un buon rapporto con l’idea di prevenzione, se è vero che meno del 50 percento degli italiani sotto i 24 anni usa il preservativo, che circa il 40 percento degli automobilisti viaggia con le cinture di sicurezza slacciate (fonte: Etsc, 2020) e che, in barba allo stesso spot che per primo ha lanciato lo slogan Prevenire è meglio che curare alla fine degli anni ottanta, più del 60 percento di noi va dal dentista meno di una volta all’anno e quasi il 70 percento non si lava neppure i denti tutti i giorni (fonte: Masterdent, 2018).

Se vogliamo minimizzare il rischio di essere travolti da tsunami di critiche, dunque, dobbiamo inevitabilmente cambiare paradigma, accettando di essere vulnerabili (per metterci, quindi, nelle migliori condizioni di non esserlo più) e accettando altresì che, dall’altra parte del monitor o del display, ci siano persone i cui istinti sono molto più oscuri e complessi di quanto la nostra comfort zone strategica ci porti abitualmente a immaginare.

Immagine di apertura di Headway su Unsplash.

L'autore

  • Antonio Incorvaia
    Antonio Incorvaia svolge attività di consulenza e formazione per agenzie e aziende in materia di Digital Media Management, Content Marketing ed Employer Branding. Tra gli altri, ha curato progetti di comunicazione per cameo, Eni, Ferrero, Il Sole 24 Ore, Lottomatica, Max Mara, SKY, Snam, TIM, Volkswagen e Whirlpool. Con Apogeo ha pubblicato Employer Branding. È coautore del best seller Generazione mille euro, da cui è stato tratto l’omonimo film del 2009.

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