Per sapere queste cose si può fare prima
- Che cosa deve saper fare un manager
- Che cos’è il rapporto prezzo/utili (P/E)
- Che cos’è la strategia
- Che cos’è una società per azioni
- Qual è la differenza tra inbound marketing e outbound marketing
1. Che cosa deve saper fare un manager
Leadership e management non sono la stessa cosa, ma servono entrambi: un leader sfida lo status quo, un manager lo accetta come un dato di fatto. Un capo di solito deve essere sia leader sia manager. Decine di etichette accattivanti come bottom-up, top-down, gestione per obiettivi e gestione delle crisi sono state usate per descrivere le tante e varie teorie su come essere manager.
L’ingegnere statunitense Frederick Winslow Taylor, a cui si attribuisce il conio dell’espressione il tempo è denaro, fu tra i pionieri della ricerca del “modo migliore” per eseguire funzioni manageriali di base come la selezione, la promozione, la retribuzione, la formazione e la produzione. Taylor fu seguito da Henri Fayol, un amministratore delegato di successo di una società mineraria francese, che sviluppò quelli che chiamò i quattordici principi del management, riconoscendo che il suo elenco non era né esaustivo né universalmente applicabile. Espose anche quelle che considerava le cinque principali funzioni di un manager. Quasi un decennio dopo, Luther Gulick, un americano, e Lyndall Urwick, tra i pionieri della consulenza gestionale professionale in Inghilterra, ampliarono l’elenco di Fayol arrivando a sette attività di management esecutivo riassunte dall’acronimo POSDCORB:
- Pianificare: determinare in anticipo gli obiettivi e i metodi per raggiungerli;
- Organizzare: stabilire una gerarchia di autorità per il lavoro;
- Gestire il personale (Staffing): reclutare, assumere e formare i lavoratori; mantenere condizioni di lavoro favorevoli;
- Dirigere: prendere decisioni, impartire ordini e direttive;
- Coordinare: mettere in relazione tutti i settori dell’organizzazione;
- Relazionare: informare la gerarchia attraverso report, valutazioni e ispezioni;
- Budgettare: assecondare la pianificazione fiscale, la contabilità e il controllo di gestione.
Nel 1973 l’accademico canadese Henry Mintzberg, ora professore di organizzazioni all’INSEAD, in Francia, ampliò ulteriormente i compiti e le responsabilità del manager articolandoli in 10 ruoli:
- rappresentante: svolge compiti di rappresentanza come capo dell’organizzazione;
- leader: promuove un’atmosfera di lavoro adeguata, motiva e supporta i subordinati;
- collegamento: sviluppa e mantiene una rete di contatti esterni per raccogliere informazioni;
- collettore di informazioni: raccoglie informazioni interne ed esterne che siano rilevanti per l’organizzazione;
- diffusore di informazioni: passa informazioni concrete e fondate su valori quantitativi ai subordinati;
- portavoce: comunica all’esterno su performance e policy aziendali;
- imprenditore: progetta e avvia il cambiamento nell’organizzazione;
- gestore di problemi: si occupa di eventi imprevisti e guasti operativi;
- allocatore di risorse: controlla e autorizza l’uso delle risorse organizzative;
- negoziatore: fa da intermediazione con altre organizzazioni e individui.
Tutti questi tentativi di formulare un approccio onnicomprensivo e universale, così da giungere a un’unica migliore definizione del ruolo del manager, naufragarono nel provare a dar conto dei limiti del flusso di informazioni dalla prima linea al vertice. Due teorici del management, Tom Peters e Nancy Austin, suggerirono che i manager di aziende efficaci ottenessero le informazioni di cui avevano bisogno uscendo dai loro uffici e parlando con le persone: dipendenti, fornitori, altri manager e clienti. Chiamarono il loro approccio management by wandering around o MBWA, che in sintesi è caratterizzato dalla presenza del responsabile sul campo.
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Oggi, la visione del ruolo di un manager è meglio descritta come contingente rispetto alle circostanze interne ed esterne dell’azienda. Amplificata dalla definizione piuttosto altisonante di teoria della contingenza, il suo rappresentante Fred Fiedler, psicologo aziendale e gestionale presso l’University of Washington, nel 1967 introdusse per la prima volta quello che chiamò modello di leadership contingente.
2. Che cos’è il rapporto prezzo/utili (P/E)
Il modo più semplice e consueto per valutare le aziende è quello di utilizzare una formula nota come rapporto prezzo/utili (P/E). Il rapporto P/E si calcola dividendo il prezzo delle azioni per l’ammontare degli utili realizzati da ciascuna azione. Per esempio, se un’azienda realizza utili per 100.000£ e possiede 1.000 azioni, l’utile per azione sarà di 100£. Se il prezzo delle azioni di quell’azienda è di 10£, allora il P/E sarà di 10 (100£ ÷ 10). Questo per quanto riguarda la teoria, adesso vediamo la pratica.
I rapporti P/E variano a seconda del settore di attività e dell’attuale andamento del mercato per quel settore. Per esempio, il settore high-tech può avere un P/E di 30 o addirittura superiore a volte (Google a un certo punto aveva un P/E di 100.) Ciò significa che gli azionisti erano disposti a pagare 100 $ per ogni dollaro di profitto. Per la Barclays Bank, invece, si pagavano solo 10£ per ogni sterlina di profitto e nel caos del mercato del 2008 il settore bancario è sceso ben al di sotto di questa cifra. Il mercato nel suo complesso tratta con P/E compresi tra 10 e 20.
3. Che cos’è la strategia
Joseph Lampel, professore di strategia alla Cass Business School e autore di Strategy Bites Back, racconta di quando ricevette una richiesta pressante da uno dei suoi studenti MBA: Potrebbe per favore darmi una definizione di strategia che sia chiara e di facile utilizzo? La mia carriera, disse lo studente, può dipendere da questo e inoltre vorrei iniziare il corso avendo un’idea migliore di ciò che dovrei cercare. Lampel prosegue spiegando di essere stato meno sorpreso dalla richiesta che dal fatto che fosse arrivata prima ancora dell’inizio del corso. Era abituato a essere avvicinato alla fine delle lezioni da studenti che gli confessavano di non sapere ancora cosa fosse esattamente la strategia.
La strategia, sebbene sia una materia fondamentale in ogni business school, è meno una disciplina accademica e più la valutazione in continua evoluzione di come un’organizzazione dovrebbe posizionarsi per affrontare al meglio le sue sfide. È un po’ come in quella citazione attribuita a un governatore della Banca d’Inghilterra, secondo il vero significato del Natale non è chiaro fino a Pasqua; così, nelle vendite al dettaglio, possiamo riconoscere le strategie di successo solo dopo averle viste in atto. Il caso di studio affrontato di seguito dà un’idea delle dimensioni lungo le quali è modellata la strategia: in parte marketing, in parte flusso di cassa, in parte persone, in parte cultura e, soprattutto,in parte valutazione di un mondo in continua evoluzione e sviluppo.
La strategia ha tre livelli: l’aspetto analitico e di pensiero intellettuale, utilizzato per ideare un’ampia direzione strategica; lo sviluppo e la definizione di azioni specifiche nel perseguimento di tali strategie; l’attuazione della strategia attraverso l’esecuzione di piani aziendali. Se un’organizzazione sbaglia in una qualsiasi di questi livelli, i risultati a cui mira potrebbero non essere raggiunti, potrebbe restare indietro rispetto ad altri nel mercato o, nel peggiore dei casi, fallire del tutto. Lavorare in modo corretto a tutti e tre i livelli può rivelarsi un’arte più che una scienza: è un po’ come una persona miope che cerca di infilare con un unico e rapido movimento la cruna diversi aghi, tenuti in parallelo da persone diverse.
4. Che cos’è una società per azioni
Una società per azioni è una società che può vendere azioni al grande pubblico sia attraverso un mercato azionario riconosciuto, sia tramite pubblicità sulla stampa o tramite intermediari. Deve soddisfare alcune condizioni minime che variano da Stato a Stato, ma in generale:
- deve dichiarare di essere una società per azioni nel suo statuto;
- deve disporre di un capitale sociale autorizzato a cinque zeri;
- prima di poter operare, un quarto di questo capitale deve essere stato effettivamente versato;
- ogni azione allocata deve essere pagata almeno fino a un quarto del suo valore nominale;
- deve avere almeno due azionisti, due amministratori e un segretario della società in grado di soddisfare determinati standard in termini di qualifiche o esperienza;
- la società deve depositare i bilanci presso l’ente normativo competente dello Stato in cui è domiciliata;
- tali bilanci devono rispettare lo stile e le norme dell’organismo contabile nazionale di riferimento;
- con alcune eccezioni minime, i bilanci della società dovranno essere controllati da una società di revisione autorizzata.
5. Qual è la differenza tra inbound marketing e outbound marketing
Tutti riceviamo email da persone e aziende che non conosciamo: questa è una forma di marketing outbound o in uscita. La speranza di chi la pratica è avere fortuna: auspicano di sorprenderci nel momento in cui abbiamo un bisogno, in un giorno in cui abbiamo voglia di comprare. L’approccio alternativo è catturare il nostro interesse grazie a testi efficaci su un sito web. Queste parole compaiono nella nostra ricerca su Internet, quando già stiamo mostrando di poter essere interessati: è il cosiddetto inbound marketing.
Outbound
Lo scopo del marketing è generare risultati favorevoli e, a prima vista, il marketing outbound manca l’obiettivo. Si tratta di un marketing alla cieca: a meno che un potenziale cliente non agisca su una delle tue email, non sai davvero se ne è stato influenzato. Senza queste informazioni non puoi notare nessuno dei segni che mostrano interesse. Hai mai riclassificato un potenziale cliente come caldo o freddo o lo hai rimosso dal tuo elenco di marketing outbound perché non ha risposto? Non sai quello che non sai: magari si tratta di un potenziale acquirente che non ti ha contattato, ma è comunque intenzionato a comprare.
Eppure, le fredde email funzionano. In tutti i settori, secondo le medie del 2020, il tasso di apertura di queste email è stato del 21,3%, in calo rispetto alla media del 24% del 2015-18 a livello globale.
Inbound
Il contenuto è lo strumento chiave del marketing inbound. Popola il tuo sito di cose utili, e le persone lo troveranno. La metà degli acquirenti su Internet prima di acquistare fa ricerche. In genere, ne ricavano una lista ristretta, e poi fanno altre ricerche ancora. Allora, e solo allora, sono pronti per l’acquisto. È il momento in cui puoi informare gli acquirenti, quando sei a conoscenza di questo processo, offline. La pubblicità convenzionale raggiunge milioni di persone ogni giorno, invitandole a chiedere di comprare. Secondo le ricerche, inizi a dimenticare una pubblicità appena è terminata. Anche un’intensa campagna si dimentica in poche settimane. I contenuti online, invece, restano per sempre: Google non dimentica mai. Indicizza i tuoi contenuti online rispetto ai termini di ricerca del tuo settore e quel contenuto potrà essere trovato per sempre.
Tuttavia, non puoi vendere a chi non ti sta guardando e il marketing inbound funziona solo se il potenziale cliente sta cercando qualcosa. In questo senso gli sforzi inbound possono essere meno efficaci di quanto i sostenitori della rilevanza del contenuto vorrebbero far credere.
Questo articolo richiama contenuti da MBA in 30 giorni: finanza aziendale. e MBA in 30 giorni.
Immagine di apertura originale di Mimi Thian su Unsplash.