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Hacking e calamità

19 Settembre 2016

Hacking e calamità

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Faccio fatica a pensare, al nostro tempo e in Italia, a un tema più bolso e ritrito di quello della cultura hacker.

Sebbene il termine sia ormai abusato e abbia un immaginario collettivo legato allo smanettone che compromette un sistema informatico per trarne una qualche forma di profitto, l’hacker è la figura che istantaneamente mi è venuta alla mente leggendo il post di Giuseppe Augiero, che era ad Amatrice nei giorni successivi al terremoto.

27 agosto – Domani si parte per Amatrice per ricostruire qualche ponte radio (uhf, vhf e wifi) e ridare connettività via satellite in modo da contenere una parte dei danni relativi alla connettività fatti dal terremoto del 24 agosto.

Così inizia il racconto di Giuseppe, che in una forma particolarmente asciutta descrive le azioni compiute per ristabilire la connettività in quattro differenti punti di accesso con dei link satellitari, superando non poche difficoltà di vario genere.

Un contributo squisitamente tecnico il suo quindi, ma – passati i primi giorni dal terremoto – ripristinare un fondamentale canale di comunicazione come Internet è un modo per permettere a chi è stato duramente colpito dal sisma di tornare lentamente a una condizione più simile alla normalità. Sempre Giuseppe scrive:

Portare la connettività ci fa sembrare, agli occhi delle persone, dei super eroi. […] Abbiamo avuto qualche piccola difficoltà. Il primo access point montato non andava ma ora tutto funziona. Abbiamo Internet. Mentre Luca fa una prova di accesso alla rete in varie zone del campo, io chiedo ad alcuni ragazzi di connettersi. Tutto funziona. Siamo felici.

Alla fine del suo lungo e intenso racconto, la prima considerazione – oltre alla gratitudine e all’istintivo desiderio di invitarlo a bere una birra per farmi raccontare più in dettaglio i problemi tecnici incontrati – è stata che forse è il momento di ricominciare a parlare di cultura hacker, cercando un modo meno autoreferenziale ed elitario di raccontarla.

Forse il primo passo è tornare alle origini come ha fatto Ben Pagoda, che in un bellissimo articolo pubblicato sul New Yorker ha descritto l’evoluzione del termine hack nel tempo, arricchendola di riferimenti interessanti.

Ad esempio, la definizione di hacker pubblicata nel 1975 nel Jargon File è una delle mia preferite:

Una persona che ama esplorare i dettagli dei sistemi programmabili e il come spingerli all’estremo delle loro possibilità, al contrario dell’utente tipo che preferisce imparare solo il minimo indispensabile. (A person who enjoys exploring the details of programmable systems and how to stretch their capabilities, as opposed to most users, who prefer to learn only the minimum necessary.)

La contrapposizione tra enjoys exploring e learn only the minimum racchiude proprio l’essenza del termine.

Volendo banalizzare il concetto, è impossibile essere hacker senza una passione quasi ossessiva per la conoscenza. Questa passione ha creato grandi progetti open source che hanno cambiato la storia dell’informatica come Linux, e innumerevoli piccole iniziative che hanno organizzato eventi di comunità formando le nuove leve.

L’esperienza di Giuseppe non è un caso isolato: questo tipo di supporto da parte delle hacker community durante le situazioni di emergenza non è un fatto nuovo. Interessante è la storia di Safecast, nata in Giappone in conseguenza del terremoto del 2011, o quella dei vari Random Hacks of Kindness che si svolgono in giro per il mondo. In generale la propensione verso la condivisione, il senso della comunità, la collaborazione sono i valori distintivi che, insieme alla passione per la conoscenza succitata, tratteggiano il profilo dell’hacker.

Alle versioni hollywoodiane alla Mr. Robot – ovvero il genio introverso, solo contro il mondo che viola i sistemi informatici di istituzioni e aziende – preferisco l’hacker che condivide quanto sa alle conferenze e che si rimbocca le maniche quando c’è bisogno: come fa Giuseppe.

L'autore

  • Andrea C. Granata
    Andrea C. Granata vanta oltre 25 anni di esperienza nel mondo dello sviluppo software. Ha fondato la sua prima startup nel 1996 e nel corso degli anni si è specializzato in soluzioni per l'editoria e il settore bancario. Nel 2015 è entrato a far parte di Banca Mediolanum come Head of DevOps, ruolo che oggi ricopre per LuminorGroup.

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