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Il futuro come una volta

08 Luglio 2016

Il futuro come una volta

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Dal caleidoscopio del 1815 a Oculus Rift del 2016: la necessità di esperienze immersive in 200 anni di evoluzioni tecnologiche.

Nicholas Mirzoeff insegna Media, Culture and Communication alla New York University e spicca nel campo della cultura visiva. Ha pubblicato di recente un volume molto interessante al riguardo: How to see the world.

Attingendo sia dalla storia dell’arte che dall’esperienza di tutti i giorni, Mirzoeff dipinge una formidabile visione d’insieme che aiuta a comprendere la realtà e a gestire la valanga di immagini che viene continuamente in contatto con noi.

Mappe, telescopi e microscopi, e poi ancora raggi X, fotografia e cinema, fino ad arrivare a internet e realtà virtuale: ogni epoca ha visto la sua rivoluzione. C’è una costante che unisce tutti questi avanzamenti, ovvero il bisogno umano di emozionarsi. Le immagini sono quanto di più immediato e stimolante possibile, perché non sono i nostri occhi a leggerle, ma il nostro cervello.

Alzi la mano chi da piccolo non ha mai provato a giocare con il caleidoscopio, con i suoi specchi e frammenti di vetro colorato che creavano miliardi di combinazioni simmetriche. Per non parlare poi di quelle finte macchinette fotografiche che si trovavano nei banchetti di souvenir e contenevano 24 scatti della località turistica. Guardavamo nell’obiettivo ed era un po’ come avere la Tour Eiffel proprio lì davanti a noi, anche se in realtà ci trovavamo ai piedi di Notre Dame. Il suo più diretto avo è stato senza dubbio il visore stereoscopico, un dispositivo ottico a forma di mascherina, con tanto di lenti che simulavano la percezione della tridimensionalità e immagini che si potevano cambiare.

Il visore stereoscopico

1832: il visore stereoscopico di Sir Charles Wheatstone.

Deve passare più di un secolo perché faccia la sua apparizione il Sensorama, che non solo aveva uno schermo 3D e un audio stereo, ma in versioni più complete anche un generatore di odore e vento, e addirittura una sedia in grado di vibrare a seconda di cosa veniva proiettato sullo schermo. Inutile sottolineare che all’epoca veniva considerato da tutti l’ultima frontiera del cinema; da quasi tutti, in realtà, perché non mancarono di certo i critici che lo reputavano come un mero divertimento da parco gioco. Il Sensorama sparì nel giro di poco per via del costo eccessivo e l’assenza di finanziamenti da parte delle case di produzione americane. A noi rimangono immagini assai buffe come quella qui sotto.

Sensorama

1957, Sensorama: ultima frontiera o gioco da luna park?

Ma abbiamo altri buffi reperti archeologici: i nostri amati Google Glass hanno un nonno ingombrante di tutto rispetto, nato negli anni ’70, che ha saputo combinare una macchina fotografica a un personal computer. Unico neo: il peso eccessivo che lo rendeva pressochè inutilizzabile.

Head Mounted Display alle origini

1971: il primo dispositivo a base HMD, Head-Mounted Display.

Parlando di realtà virtuale e immersione, anche l’esperimento dell’Architecture Machine Group del MIT Aspen Moviemap (qui un video) è parecchio interessante, anche perché anticipa di ben 30 anni la mappa interattiva Street View di Google. Si trattava di un viaggio virtuale nella città di Aspen, in Colorado, e l’utente aveva a disposizione un buon numero di possibilità, come la scelta della stagione o dell’epoca storica.

Aspen Moviemap visto in salotto

1977: Aspen Moviemap e i giochi di prospettiva dalla poltrona.

E infine, un’incursione nel campo dei videogiochi.

Segascope

1987: Segascope 3D Glass per lanciare Maze Hunter 3D.

È del 1987 il primo paio di occhiali 3D. A dirla tutta, la pubblicità era ingannevole, perché in verità l’effetto era tremolante e sfocato; non per niente il prodotto venne poi ritirato e l’esperimento concluso.

Diceva Einstein: La realtà è una semplice illusione, sebbene persistente.

L'autore

  • Alice Avallone
    Alice Avallone lavora da anni come digital strategist per grandi e piccole aziende, enti pubblici e agenzie di comunicazione. Dirige l'osservatorio di antropologia digitale Be Unsocial e insegna digital storytelling alla Scuola Holden a Torino.

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