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La censura in rete e il fallimento del PICS

18 Giugno 1998

La censura in rete e il fallimento del PICS

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Sviluppato a partire dal '96, PICS è solo uno standard, una scatola vuota senza colpe, che permette di "blindare" un browser e di consentire l'accesso solo a quelle risorse Internet prescelte dal genitore o dall'educatore

In uno degli articoli di questa serie, sugli standard W3C, avevamo promesso, senza fretta, di parlare del PICS (Platform for Internet Content Selection), il sistema di rating (etichettatura) dei contenuti delle pagine Web che, dopo la sconfitta del Common Decency Act, è stato ampiamente strumentalizzato dai censori della rete nel tentativo di fare pulizia ed eliminare i cattivi da Internet. Manteniamo ora l’impegno preso.

Se dietro le quinte degli altri standard W3C si muovono interessi prevalentemente commerciali, con battaglie tra Netscape e Microsoft o tra Adobe e Macromedia, il PICS ha invece alle spalle una lungo scontro politico ed ideologico tra le differenti filosofie della rete, ed è necessario, più che inoltrarsi nella tecnica, riassumere in breve la situazione e gli eventi.

La Corte Suprema degli Stati Uniti a giugno ’97 bocciò definitivamente il progetto di legge noto come CDA (Communications Decency Act) firmato da Clinton all’inizio del ’96, che, se in vigore, avrebbe comportato severe sanzioni per chi avesse “consapevolmente” trasmesso in rete materiale o messaggi “osceni o indecenti” ai minori di 18 anni. La sua bocciatura per incostituzionalità avvenne anche grazie alla mobilitazione di un ampio fronte di oppositori che riuniva sotto il simbolo del blue ribbon, il nastrino blu emblema della libertà di espressione in rete, attivisti politici ed Internet provider, editori di riviste pornografiche e movimenti femministi, i grossi produttori di software e i bibliotecari.

La positiva conclusione di questa lunga vicenda legale lasciò finalmente emergere una profonda spaccatura all’interno del fronte dei libertari, determinata da divergenze che esistevano già da tempo. Se le battaglie delle organizzazioni per la difesa dei diritti civili, come l’American Civil Liberties Union, quelle dei bibliotecari della American Library Association e quelle dell’Electronic Frontier Foundation erano dettate da questioni di principio più che considerazioni pratiche, chi usa Internet a fini commerciali, invece, aveva contrastato il CDA solo perché la sua approvazione avrebbe ostacolato in modo irrimediabile lo sviluppo di una rete adatta anche al business.

Bocciata la censura indiscriminata dei comma troppo ambigui del CDA, quindi, la tentazione di accettare forme di controllo più in sintonia con il futuro commerciale di Internet era diventata molto forte. L’obiettivo era l’attuazione di un “cyberzoning”, cioè di una “recinzione della rete” all’interno della quale fosse possibile per tutti muoversi in assoluta tranquillità, come un consumatore in un supermercato per famiglie. Il recinto si chiama “rating”, un sistema di punteggio che permette di etichettare le pagine Web in base al loro contenuto. All’interno del recinto si potrebbe scegliere “liberamente”: da un lato le informazioni adatte anche ai bambini, e dalla parte opposta le altrettanto classificate pagine dei siti Web pornografici (ma solo quelli “seri” e commerciali, bene attenti a bloccare l’ingresso dei minorenni). Fuori dal recinto ci sarebbe la terra di nessuno, dove nessuno sarebbe disposto ad investire, e dove non arriverebbero neppure i motori di ricerca.

In questo scenario è nato il PICS, sviluppato a partire dal ’96 ed approvato nella sua forma definitiva e più completa alla fine del ’97. PICS, già incorporato nella versione 4 di Internet Explorer, è solo uno standard, una scatola vuota senza colpe che permette di “blindare” un browser e di consentire l’accesso solo a quelle risorse Internet che corrispondono al sistema di etichette prescelto dal genitore o all’educatore master di quel sistema. Si può scegliere una configurazione senza sesso, ad esempio, oppure un livello di violenza medio o basso. Perché questo funzioni, però, le pagine devono essere state “rated”, etichettate, da qualcuno, o dallo stesso Web master o da un’agenzia incaricata della classificazione.
Esaminare tutte le pagine Web esistenti, tuttavia, che sono ormai più di 300 milioni, è impossibile. Ecco quindi la soluzione proposta dai sostenitori del rating: i browser e i motori di ricerca dovrebbero prendere in considerazione solo le pagine classificate, ed ignorare tutte le altre. Secondo una proposta presentata nell’autunno scorso della senatrice democratica Patty Murray, le pagine classificate in modo scorretto dovrebbero diventare illegali, mentre secondo altri dovrebbero essere chiusi tutti i siti privi di un rating autorizzato. Lycos, infine, durante una riunione informale alla Casa Bianca nell’autunno scorso, aveva chiesto agli altri gestori di motori di ricerca di eliminare subito dai propri archivi le pagine non rated.

Per avere un’idea precisa del funzionamento pratico del PICS, si consiglia la lettura del capitolo “Il domani di Internet: mare grosso e salvagenti possibili, anzi probabili” scritto da Alberto Berretti nel libro Gens Electrica.

Quanto alle due modalità con cui assegnare il rating, il self-rating e il rating eseguito da un’apposita agenzia, comportano entrambe grossi svantaggi: l’etichetta rilasciata da un’agenzia avrebbe un costo che non tutti i Web master potrebbero sostenere, mentre il self rating e il desiderio di essere classificati in modo chiaro o in un quartiere a luci rosse o in una zona “per bene” tenderebbe ad appiattire e ad uniformare per categorie i contenuti dei siti Web. In entrambi i casi, inoltre, chi controllerebbe le etichette auto prodotte o le agenzie che eseguono il rating?
Da qualunque punto di vista lo si osservi, quindi, i rating system, se obbligatori, di fatto realizzerebbero l’esatto contrario di quello che dichiarano di voler fare, cioè toglierebbero agli utenti la possibilità di selezionare i siti e i loro contenuti, per sé e per i propri figli, in modo libero e autonomo, demandando ogni scelta o ai Web master, o a delle agenzie, oppure a degli ipotetici controllori degli uni o delle altre.

Seguendo le tesi dei sostenitori del rating, in sintesi, l’Internet accessibile dovrebbe essere costituita solo o dai siti di Walt Disney o da quelli dei professionisti della pornografia, senza più spazi intermedi. Una prospettiva orrenda, alla quale si sono opposti ben presto i principali content provider: un’associazione chiamata Internet Content Coalition, che conta tra gli altri l’Associated Press, Time, CNN e il Wall Street Journal ha decisamente rifiutato alla fine del ’97 l’invito della Casa Bianca di sottoporsi volontariamente a certificazione.

Dopo questi rifiuti, la situazione è cambiata profondamente. Se fino all’anno scorso gli attivisti di ACLU si chiedevano allarmati ” Is cyberspace burning?“, il cyberspazio sta bruciando, come i libri nel romanzo di Ray Bradbury Fahrenheit 451, adesso le esigenze del mercato e del commercio elettronico hanno tolto importanza al PICS e alla censura, portando alla ribalta altri problemi e altri standard. Le questioni più importanti legate al commercio via rete sono relative al trattamento dei dati degli utenti, e su questo il W3C sta studiando un altro protocollo, il P3P, di cui parleremo un’altra volta.

Il PICS è morto, dunque? No, sopravvive benissimo in alcuni pacchetti studiati per la navigazione sicura dei bambini, software che rendono tranquilli i genitori più ingenui, quelli che credono che il loro “bambino” non sia capace di crackare un PC o, più semplicemente, di guardare un filmato hard sul loro videoregistratore quanto sono assenti. Per il resto, il progetto di usare il PICS per una censura generalizzata della rete è fallita.

In Europa, ad esempio, gli unici ad insistere ancora con la proposta di creare una rete tutta etichettata, una sorta di nuova “TV sitter” a cui affidare i bambini, sono i genitori dell’associazione Città Invisibile, che in collaborazione con l’Università di Bologna hanno realizzato mesi fa un’agenzia italiana di rating, RA-It, tuttora inutile ed inutilizzata. Negli Stati Uniti, invece, a sostenere l’etichettatura generalizzata del Web con il PICS sono rimaste solo le organizzazioni più puritane, che, paradossalmente, sono spalleggiate sul versante opposto dagli editori delle riviste pornografiche presenti in rete, prima fra tutte la gettonatissima Playboy.

La storia del PICS dimostra una volta di più che Internet è un mare magnum dove ciascuno può trovare il suo spazio purché non pretenda di imporre regole universali o di chiudere gli spazi utilizzati dagli altri.

Questo non significa che in Internet i censori non esistono più, ma che le esigenze di sviluppo economico della rete non sono state in grado, finora e forse per il futuro, di mettere a punto un meccanismo di controllo dei contenuti, che sia CDA, PICS,, perseguibilità dei provider o altro, in grado di funzionare globalmente. In effetti, le discussioni globali sulla censura tendono a trasformarsi sempre di più in regolamenti locali. Negli Stati Uniti, ad esempio, le piccole proposte legislative volte ad introdurre l’uso di filtri sui computer delle biblioteche pubbliche o delle scuole sono in discussione molto spesso a livello di singolo stato, e solo di rado come leggi federali. Con buona pace del povero PICS, ormai degradato al rango di piccolo cyber sitter da PC.

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