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Language design

16 Gennaio 2017

Language design

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Quante volte una segnalazione sembra incongrua o una comunicazione non raggiunge l'obiettivo sperato? Ecco perché.

Questo libro di Yvonne Bindi appena uscito tratta di parole e interazioni e mostra come l’uso delle prime abbia dirette conseguenze sulle interazioni tra un utente e un prodotto o servizio, nel mondo digitale come in quello fisico.

Abbiamo intervistato l’autrice attorno a questi argomenti per chiare ancora meglio lo scopo del libro e, se possibile, approfondire qualche dettaglio ulteriore. Ecco il risultato.

Apogeonline: Un’idea affascinante, dichiarata già nella scheda di presentazione del libro: imparare a usare le parole come se fossero esse stesse delle interfacce che permettono di compiere azioni. Il ritorno delle parole, dunque, dopo anni di interfacce grafiche? Oppure non se ne sono mai andate e, per così dire, rialzano la testa?

Yvonne Bindi: Le parole non se ne sono mai andate, sarebbe impossibile. Però è vero che oggi più che mai viviamo in una civiltà della parola, in cui Internet, le chat, i nuovi dispositivi digitali hanno aumentato la presenza di parole scritte, dette, ascoltate.

Viviamo immersi nelle parole e sempre più importanti sono quelle che ci permettono di fare cose. È in questo senso che le parole sono interfacce, perché sono i punti d’incontro tra noi e le esperienze che viviamo: qualche volta basta guardale, altre bisogna toccarle, altre ancora pronunciarle. La funzione della parola Entra in un’interfaccia web non è così lontana dalla maniglia di una porta: ambedue ci permettono di andare oltre, di attraversare un’esperienza. Però affinché la parola Entra venga riconosciuta come un comando o un pulsante, deve rispecchiare la nostra idea di comando o pulsante, deve cioè avere un certo aspetto grafico: forma, colore, carattere, sfondo e la giusta posizione. Lo stesso vale per la maniglia: deve stare in un certo punto della porta, deve avere una data foggia e rispondere a certi comportamenti.

La linea di confine tra parola scritta e immagine è difficile da tracciare e le parole scritte sono prima di tutto immagini per il nostro apparato percettivo; per questo riusciamo a sposarle con forme, colori e altri segni con naturalezza ed efficacia. E addirittura a sostituirle con altri segni o oggetti e leggerle ugualmente come parole.

Figura 1

Articolo 1, dell’artista materano Dario Cermentano. Vediamo utensili o una parola?

 

Immagini e azioni sono molto più intrecciate di quanto pensiamo. Come parlanti non siamo sempre consapevoli di certi fenomeni, ma se nella vita abbiamo deciso di occuparci di comunicazione e design è bene avere coscienza di quante azioni compiamo quotidianamente attraverso le parole. Per progettare buoni oggetti e ambienti, i designer devono conoscere come si comportano le persone, che rapporto hanno con lo spazio, con il tempo, con forme e colori. Così, chi progetta interazioni, messaggi e segnaletica deve conoscere che rapporto hanno i parlanti con le parole, come le usano, come le percepiscono, per quali ragioni le interpretano male e perché certi significati sono più probabili o facili di altri.

E già che parliamo di interfacce, parole e grafica, che cosa pensi da architetto dell’informazione della loro intersezione? Più in chiaro: quanto hanno senso ed efficacia gli emoji nella comunicazione? Ne hanno una poi, fuori dalla messaggistica di base? Che pensi della loro proliferazione, una versione di Unicode dopo l’altra?

Figura 2

Segni grafici che identificano lettere ma diventano grafica in contesti specifici.

 

Credo che questa immagine riassuma perfettamente quello che accade ai segni grafici e il modo che hanno i parlanti di lavorare continuamente sulla lingua e selle sue infinite e imprevedibili risorse espressive.

Gli emoticon ora sono facce con mille espressioni, abbiamo anche animali e oggetti vari, ma tutto è nato dai due punti, dal punto e virgola, dalle parentesi, dall’asterisco, dall’usare una D e vederci una lingua, da un otto per fare gli occhi scemi 8-), il meno per il naso e così via. Un riuso dunque di segni linguistici e d’interpunzione per creare immagini e espressioni che soddisfano esigenze pratiche ed espressive.

Pensiamo a che strada ha fatto il cuoricino nella foto. Qualcuno, anni fa, per fare un cuore ha unito i segni < e 3. Agli altri parlanti la cosa è piaciuta e hanno iniziato ad usarlo e lo hanno fatto così capillarmente e frequentemente che quei due segni hanno iniziato a fondersi insieme. Tanto che oggi le piattaforme digitali ce li trasformano automaticamente in cuoricino. Poi un giorno me lo sono ritrovato in stazione: dato il supporto (un muro) e lo strumento per produrlo (un pennarello) il segno poteva risultare fuori posto. Ma così non è perché il cuore, nella comunicazione del terzo millennio, è adagiato su un fianco e si porta dietro le tracce della sua creazione.

Il riuso creativo è alla base della comunicazione umana. Nel libro faccio l’esempio di un riuso d’eccellenza, quello del segno @ che, proprio per la sua storia di design, nel 2010 entra a far parte della collezione del MoMA di New York. È la prima volta nella storia che un carattere tipografico riceve un simile riconoscimento. La chiocciola si guadagna il merito per aver attraversato i secoli, adattando ogni volta la propria identità alle esigenze della comunicazione umana, agli strumenti e ai dispositivi in evoluzione. Vi dico solo che era già in uso nel 1500 e viaggiava sulle navi dei mercanti veneziani, il resto è raccontato nel libro ovviamente.

Language design si presenta come destinato ai professionisti della comunicazione ma immagino che potrebbe essere molto utile anche ai dilettanti; chi non è designer o pubblicitario, ma usa le parole in ufficio, a scuola, in condominio… qual è la soglia di accessibilità di questo libro?

Sì, il libro è per chi fa comunicazione per professione ma anche per chi deve farla per una professione diversa. Penso a chi ha una propria attività: un bed and breakfast, un laboratorio, uno studio, e voglia saperne di più su alcuni temi. Per renderlo accessibile a un pubblico vasto e non sempre in possesso di un percorso di studi di comunicazione alle spalle, ho usato un linguaggio semplice, privo di tecnicismi. Ho cercato di essere precisa e ponderatamente dettagliata. La sfida è stata di semplificazione mantenendo alto il livello dei contenuti.

Il libro parla di segnaletica, di menu, di punteggiatura, del non detto, dei meccanismi di preveggenza, del risparmio cognitivo, della percezione umana ma anche di come preparare una buona presentazione per un convegno o un progetto in azienda. Si parla di interfacce vocali e di come la lingua abbia a che fare con l’architettura dell’informazione. I temi sono tanti e vari, ma chi lo leggerà per intero noterà che tra di essi esistono richiami e relazioni e possono riguardare molti ambiti di lavoro.

Una sezione del libro che assolutamente tutti i naviganti su web dovrebbero leggere riguarda i dark pattern. Ci accenni brevemente al tema, sapendo che i dubbi e le domande troveranno soddisfazione nella lettura di Language design?

Di solito, quando parliamo di cattivo design, intendiamo un design con errori di progettazione o di realizzazione che impediscono all’utente di raggiungere comodamente i suoi obiettivi. Esiste anche un’altra e più grave accezione di cattivo design, che non ha l’intenzione di guidare gli utenti, ma di avvantaggiare le aziende che lo utilizzano. È in questi casi che si parla di dark pattern: non sono errori, ma trabocchetti sapientemente costruiti, che sfruttano le debolezze della percezione e della psicologia umana. Nel libro ne faccio un bell’elenco mostrandone e svelandone i meccanismi.

Mi piace il modo in cui mi hai posto la questione, perché non hai messo l’accento su come si dovrebbero comportare i designer nei confronti della tentazione di usare il lato oscuro del design, ma hai girato la prospettiva dalla parte degli utenti. La possibilità di questo cambio di punto di vista pervade molti temi trattati nel libro, nel senso che molti casi descritti e molte indicazioni date possono essere letti sia come consigli di progettazione per i designer, che come svelamento e campanello d’allarme per gli utenti.

Tornando ai dark pattern, per fare un esempio, una tecnica diffusa è inserire come impostazione predefinita l’opzione che fa più comodo al proprietario del business e renderne difficile la modifica intenzionale. È ciò che avviene con gli abbonamenti ai servizi online, in cui il rinnovo automatico è sempre fissato come opzione predefinita, in genere dopo un periodo di prova gratuito, mentre l’idea della disdetta, con gli strumenti per realizzarla, resta lontano dall’attenzione e dalla memoria degli utenti. Così l’abbonamento si rinnova silenziosamente – niente email, niente SMS, nessun promemoria – molti pagano senza accorgersene, per servizi che nemmeno sfruttano.

Come ho scritto nel capitolo dedicato a questo tema, mi piace ricordare che i veri vantaggi si ottengono diversamente e le piccole gioie del web sono le interfacce oneste che non ci fanno penare, i comandi comprensibili e le istruzioni che hanno un senso. Se usando un servizio siamo soddisfatti e il nostro portafogli è salvo, vuol dire che dall’altra parte un designer ha lavorato sodo per noi.

Come funziona fondamentalmente il pensare come un architetto dell’informazione, che è uno degli argomenti del libro?

Si tratta di una prospettiva, altrimenti questo sarebbe stato un libro sulla scrittura professionale come tanti. È guardare alle cose scritte, alle parole, alla lingua da una nuova, fresca, articolata e complessa prospettiva che è quella dell’architettura dell’informazione, una disciplina emergente e multiforme che si occupa di organizzare le cose per renderle trovabili, comprensibili e fruibili.

L’architettura dell’informazione mette al centro l’utente e gli progetta attorno esperienze e soluzioni di business. Le informazioni che riceviamo sono spesso inadeguate: a volte sono troppe, altre sono troppo poche e spesso non sono esattamente l’informazione di cui abbiamo bisogno. Una buona architettura fa ordine tra le informazioni, aiuta le persone a individuare ciò che cercano e suggerisce percorsi e soluzioni. Ogni oggetto, prodotto, servizio, acquisisce valore e diventa più comprensibile quando è inserito in una rete di relazioni. I principi dell’architettura dell’informazione sono applicati nella progettazione e realizzazione di siti web, applicazioni, percorsi nelle biblioteche, aeroporti e sempre più in quelle esperienze dette cross canali in cui le persone attraversano i piani della realtà, digitale e fisico, per fare ciò di cui hanno bisogno.

Nel libro ci sono parecchi esempi di come lingua, scrittura e architettura dell’informazione siano interrelate tra loro. L’idea è pensare alla lingua come a una architettura, con cui costruiamo, interpretiamo e attraversiamo la realtà, e alle parole come alla sua interfaccia visibile, udibile e tangibile. E forse tanto più le architetture che creiamo riusciranno a rispettare i meccanismi del linguaggio, tanto meglio saranno intuitive e comprensibili per le persone.

Le persone non leggono. A che pro allora pubblicare Language design? Scherzi a parte, qual è il primo consiglio per farle leggere, o meglio per favorire al massimo l’arrivo a destinazione dei nostri messaggi?

C’è stato un momento in cui ho pensato chi me lo fa fare di scrivere questo libro? Però non è stato quando ho capito che le persone non leggono, ma quando questa estate ho comprato un arnese elettrico fatto a forma di racchetta per uccidere le zanzare. Lo so, non è un acquisto etico e in qualche modo sono stata punita per averlo fatto, perché ci ho trovato il peggior esempio di istruzioni per l’uso mai visto nella mia vita. Un breve estratto:

Bisogna caricarlo da 6-10 ore per la prima volta, può caricarlo quando ha bisogno dopo. Fa attenzione che la batteria No.5 normale non è disponibile. Deve caricare una batteria speciale.
Non lo usa nel luogo pieno di olio, aria o liquido combustibile per evitare accidenti.

Il testo intero è davvero devastante per chi predica l’usabilità e la chiarezza come le più alte espressioni di rispetto dell’utente e come alte forme di creazione e promozione dell’immagine di un marchio. Si tratta di una traduzione automatica delle peggiori esistenti, in cui non è stata applicata nemmeno la minima accortezza per rispettare le regole basilari della grammatica e della sintassi. Mentre ci preoccupiamo dei tanti aspetti della comunicazione, com’è possibile che ci si possa permettere questo uso selvaggio e irrispettoso della lingua? Penso che la lingua sia prima dei parlanti e poi delle grammatiche, mi piace la lingua degli SMS, mi piacciono le parole inventate e i gerghi. Non mi piacciono però la superficialità e l’arroganza di chi non si cura degli altri.

E per arrivare alla domanda, sappiamo che le istruzioni non vengono lette dalle persone, come spesso accade con la segnaletica, ma non per questo si è giustificati a trascurare ciò che scriviamo o pubblichiamo. Se le persone non leggono le istruzioni, le avvertenze, la segnaletica, noi designer e comunicatori dobbiamo individuarne le ragioni e proporre soluzioni. Ovviamente non c’è una ricetta. E giusto chiedersi quale parola o frase sia più giusta, comprensibile, appropriata ad un’interazione, poi però dobbiamo chiederci: dove la mettiamo? In che occasione e condizione verrà letta? Oggetti, colori, simboli, spazi: che rapporto ha con questi? Insomma considerare contesto, cotesto e utenti. A questi temi è dedicato il primo capitolo di Language design.

In Language design si parla anche di interfacce vocali come Siri, Google Assistant, Cortana e tutti gli altri servizi vocali. Ci dici qualcosa a riguardo?

Le interfacce vocali sono il futuro. La voce affiancherà sempre più le interfacce grafiche e in alcuni casi le rimpiazzerà, soprattutto con l’incalzare dell’ubiquitous computing e dell’Internet delle cose, in cui la tecnologia sarà integrata negli ambienti e gli oggetti saranno connessi in rete. L’accesso per tutti a qualsiasi tecnologia, in ogni momento, aumenta le occasioni di utilizzo delle interfacce vocali, soprattutto quando abbiamo mani occupate, guidiamo, lavoriamo, portiamo un carico o svolgiamo attività di altissima precisione, come operare chirurgicamente. Chi ha studiato linguistica ricorderà che del parlato si dice come prima cosa che la sua potenza risiede nell’essere un’attività che l’uomo riesce a compiere mentre fa altre cose e per questo ha migliorato esponenzialmente i risultati di molte operazioni, soprattutto quelle collaborative.
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Scrivere il capitolo sulle interfacce vocali è stata una bella sfida. In italiano non c’è molto, per non dire niente, ed è un argomento che mi piacerebbe approfondire in futuro. Nel capitolo dedicato a questo tema ho cercato di presentare i principî, le basi e gli strumenti potenzialmente utili ad un designer che progetti e realizzi un’interfaccia vocale, sia un’assistente, un avatar, un risponditore automatico per un call center, l’interfaccia di una cassa automatica. Per fare questo ho messo insieme consigli provenienti da designer americani e un po’ di sperimentazione personale e sono soddisfatta del risultato. Spero lo saranno anche i lettori.

L'autore

  • Yvonne Bindi
    Yvonne Bindi, laurea in Comunicazione Internazionale, è architetto dell’informazione ed esperta di linguaggio e comunicazione. Lavora come consulente, docente e divulgatrice sui temi del linguaggio, del design e della tecnologia. È stata relatrice a SMAU e al Summit Italiano di Architettura dell’Informazione e ha insegnato ai master di Architettura dell’Informazione presso lo IED di Roma e l’Università per Stranieri di Perugia. Ha scritto per Nova24, Apogeonline e riviste specialistiche.

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