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L’anno zero dell’informazione partecipata

07 Luglio 2008

L’anno zero dell’informazione partecipata

di

Grandi ostacoli, ma anche grandi opportunità. Vista con occhio globale, la nuova epoca del giornalismo diffuso va oltre il dibattito sulla necessità o meno di nuovi codici deontologici. Alcuni spunti dai più coraggiosi avamposti dei citizen media

«L’avvento del volontarismo di massa e dell’informazione diffusa e coordinata sono l’ondata del futuro», così Martin Kearns, direttore di Green Media Toolshed in un’intervista diffusa al Personal Democracy Forum del 2006, presentava il progetto Media Volunteer per la costituzione di un database di associazioni, che già contava 20.000 volontari sparsi per tutto il mondo. Tema questo assai caro anche a Jay Rosen, docente di giornalismo presso la New York University e da anni motore di vari progetti d’informazione diffusa e non-profit, in particolare riuniti sotto l’ombrello di NewAssignment. Combinazione che si sta dimostrando sempre più efficiente ed efficace, anche perché abbatte i costi e permette un’informazione di qualità, dando vita a una serie di esperimenti a livello mondiale.

In pratica, il giornalismo della carta stampata è sopravvissuto a minacce tecnologiche come la stampa a colori, la radio, la tv, e in fondo anche Internet – ennesimo jolly che consente alle testate tradizionali la possibilità di veicolare le notizie ancora più rapidamente e a basso costo. Non a caso i più veloci e flessibili si stanno attrezzando: qualche testata statunitense ha cessato di uscire su carta e si può leggere solamente online, e anche il New York Times ha già pianificato la sua migrazione verso lidi digitali. Lo spiega bene Clay Shirky nel suo recente Here Comes Everybody: «Le professioni si differenziano dalle occupazioni per la necessità di specializzazione resa necessaria dalla scarsità delle risorse», dando così adito a specifiche norme o linee guida. Ma grazie al digitale, oggi risorse tecniche e informazioni sono tutt’altro che scarse o costose, «eliminando il bisogno di specifiche competenze per esercitare la professione del giornalista, figura destinata quindi a scomparire, anzi meglio: a trasformarsi».

Inutile l’arroccarsi su posizioni difensive. Esemplare in tal senso, ripresa sempre da Shirky, la storia del libro De Laude Scriptorum: nel 1492 l’autore, Johannes Trithemius, Abate di Sponheim, scriveva che ricopiare manualmente i testi sacri «serviva ai monaci per illuminare il proprio cuore, dedicando così la vita a un nobile scopo». Tuttavia, sottolinea Shirky, «la posizione dell’Abate si sarebbe rivelata estremamente reazionaria (dobbiamo salvare a tutti i costi il vecchio sistema) se non per un dettaglio: l’autore dell’appassionata difesa, scelse l’edizione a stampa per favorirne la più ampia circolazione».

Oggi non servono più carta, inchiostro, pellicola. Con un cellulare si possono fotografare eventi e veicolare informazioni anche a chi non è capace a leggere, come fanno in Africa, dove un keniano su tre possiede un cellulare. Esemplare in questo senso la storia di Cedric Kalonji, reporter di Radio Okapi e autore di quello che si può considerare il blog più popolare del Congo, il quale non si separa mai dalla sua macchina fotografica digitale. In un’intervista concessa a una reporter di Global Voices Online spiega: «Ho cominciato a scattare le prime foto con un macchina digitale che era stata regalata a mia madre nel 2002. Penso che per leggere e scrivere occorra andare a scuola, ma con le immagini è diverso. Pur essendo incapaci a scrivere, si possono fare foto che dicono molto di più di un testo scritto. Si può anche non saper leggere, ma invece essere in grado di capire una situazione descritta da un’immagine».

Queste trasformazioni comportano nuove questioni etiche e dilemmi che vanno ben oltre il codice deontologico del giornalista o blogger che sia, rispetto al fatto nuovo di operare in pratica senza filtri. Il caso dello squilibrato giapponese che accoltella i passanti a Tokio e viene trasmesso live su Ustream, ad esempio, solleva il dibattito fra i blogger giapponesi che si chiedono come individuare dei confini fra la sfera pubblica e quella privata, dando avvio alla discussione dell’eventualità di un codice di autoregolamentazione per chi segue e trasmette simili episodi. La cronaca in diretta di un evento così drammatico (nella foto in alto un fotogramma) solleva complesse questioni di ordine morale, come si legge nella seconda parte delle Riflessioni sul massacro di Akabara a cura di Chris Salzberg, editor di Global Voices Online per il Giappone. I blogger sono divisi: «Io mando su ust [Ustream] quello che mi capita sul momento. Non c’è nessuna differenza fra trasmettere l’incidente e quanto facevo fino a quel momento, ovvero mandare in onda quello che succedeva all’interno del Linux Cafe. La ragione per cui l’ho fatto era che volevo trasmettere quello che stava capitando, l’atmosfera del momento. Tutto qui». Altri ribattono che il sostanziale monopolio dei mass media è collassato: da qui in avanti, i deboli vincoli che sono stati applicati finora ai media cominceranno a sparire, e sarà necessario affrontare la questione di che cosa sia pubblico o meno, qualcosa su cui finora non si è riflettuto granché.

Questi e altri casi analoghi testimoniano dunque del successo glocale proprio di quelle caratteristiche segnalate da Jay Rosen, il connubio tra volontarismo di massa e informazione diffusa e coordinata. Aggiungiamo un bel pizzico di nomadismo culturale e fisico, ed ecco la ricetta vincente di Global Voices Online, uno degli esperimenti più brillanti di citizen media. Composto quasi interamente da volontari, giovani e meno giovani, che vivono in un Paese diverso da quello di nascita o che hanno una famiglia distribuita nei vari continenti: canadesi trapiantati in Cina, indiani che vivono a Londra, arabi che studiano in Giappone, ma che condividono l’idea che global non sia solo un concetto economico, ma un modo di pensare.

Il punto rimane, in questo esempio e in altri ambiti della blogosfera mondiale, quello di dare voce di chi non ha voce, offrire spazio a coloro che sono invisibili e che grazie a questi tipi di progetti divengono finalmente visibili e inter-attivi. Come ha ricordato Alves Rosental, in chiusura del recente Summit di Global Voices Online a Budapest: «Va auspicata non solo la visibilità ma anche la possibilità di “dare potere” agli invisibili, mettendoli in grado di esprimersi». Tant’è che il circuito di Global Voices Online ora include alcuni progetti gemelli, come Rising Voices, che finanziano iniziative per alfabetizzare ai media sociali, le comunità marginalizzate o i detenuti dalla Giamaica alla Colombia, o Advocacy, che sostiene e rilancia i post dei blogger nei Paesi in cui vigono censure e filtri governativi. Prende forza una cascata d’informazione partecipata e decentrata, basata sul volontariato, che va scardinando regole e imperi precostituiti. Basata su una ricetta che usa un lievito speciale, fatto di diversità e accoglienza, non dichiarata ma esperita.

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