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L’ascolto è importante, ma a volte inganna

04 Marzo 2011

L’ascolto è importante, ma a volte inganna

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Sentiamo solo il rumore della punta dell’iceberg? Le opinioni della minoranza che si esprime sui social media coincidono con quelle della maggioranza silenziosa? Storia di un caso aziendale

Nel fantasmagorico, caleidoscopico, magmatico mondo dei social media, in fondo, c’è solo una certezza. Un mantra, un punto fermo. Propugnato e predicato da ogni guru che si rispetti, compreso da chiunque ci capisca un minimo dei social network. Ovviamente si tratta del primo comandamento: tu ascolterai le conversazioni in rete. E sulla base delle conversazioni saprai cosa la gente dice. E quindi cosa essi pensano. Dunque si arriva al secondo comandamento: tu elaborerai un’analisi del sentiment, che ti darà una visione della Verità, di come la tua marca è percepita, di quali sono i trend rilevanti in Rete, di cosa si dice dove, come e perché. Sulla base della ferrea logica di business susseguente, arriva in modo naturale il terzo comandamento: tu definirai le Strategie e organizzerai le tue attività sulla base del sentiment e dell’ascolto.

Ergo, ciò che comunquemente si sostiene è che l’ascolto deve essere alla base di tutte le nostre attività, essendo i social media un’attività relazionale basata sulla conversazione (e del resto tutti i mercati sono conversazioni, no?). E poi che non ci può essere conversazione a senso unico, non si può parlare se contemporaneamente non si ascolta l’altro e non si capiscono le sue opinioni, sensazioni, emozioni. Di qui una sana attività di monitoraggio della rete, di identificazione dei trend e delle opinioni, di analisi statistiche, semantiche, biologiche e psicologiche. Con una bella ripassata “a mano” da parte di esseri umani esperti che possano dare un senso a quegli output delle macchine e dei software, che in fondo sono solo statistiche. E magari anche un po’ di infiltration, per partecipare sotto copertura al dialogo e capire che aria tira.

Chi tace, acconsente?

È interessante notare che l’assioma sottostante a questi ragionamenti è semplice e profondo. Chi tace acconsente. Con chi parla. È ovvio: possiamo rilevare dal monitoraggio in Rete solo le opinioni di chi parla, essendo la lettura del pensiero a distanza una feature ancora in sviluppo la cui release non è prevista prima dell’arrivo del web 4.0/5.0. Si presuppone dunque che il ruolo della parte vocale del target sia quello di influenzare i pensieri e le opinioni di chi non parla. Ed è possibile che siano tanti, perché la storia di internet ha sempre mostrato una netta sproporzione tra utenti attivi (che generano) e passivi (che fruiscono senza generare). Chi scrive dunque fa sì che chi legge abbia la stessa opinione. C’è però da domandarsi se non possa essere vero un altro approccio popolar-filosofico: chi tace non dice niente. Ovvero che la maggioranza silenziosa legga, abbia comunque un’opinione differente ma non la esprima. Del resto, proprio in questi giorni, mi sono imbattuto in un caso – estremo, certo, ma proprio di questo tipo.

Azienda nota, con un’ampia base di clienti. Inconsapevole di avere particolari problemi sui social media, ma che comunque a un certo punto capisce che è il caso di fare un monitoraggio su cosa si dice, sulla marca, propedeutica al proprio sbarco su Facebook. Monitoraggio veloce e… disastro. Poco traffico sui social network, poche menzioni, poco interesse. Ma quel che è peggio, il 98% dei commenti o quasi è orrendamente negativo. Insulti, parolacce, messaggi al vetriolo, commenti che si augurano una lenta e dolorosa morte dei suoi manager. Scatta l’allarme rosso, ondate di panico travolgono l’azienda che non si capacita di cosa sia successo, dato che dalle altri usuali fonti di contatto non emergevano particolari problemi. Crisi che porta a comitati d’emergenza per capire come riorganizzare l’offerta e la comunicazione, a intervenire con pesanti investimenti per trovare una soluzione a una diffusa ondata d’odio.

Campagna denigratoria

Fortunatamente, però, come a volte capita, qualcuno invece di reagire sull’onda emotiva si è fermato e si è fatto venire qualche dubbio. E ha cominciato ad analizzare più a fondo la situazione. Per farla breve era successa una cosa molto semplice. Un piccolo gruppo di persone, non più di una ventina o una trentina, hater dell’azienda a prescindere avevano da tempo iniziato una propria campagna denigratoria nei confronti dell’azienda. Altri utenti, nel tempo, avevano provato ad esprimere opinioni differenti, positive; ma aggrediti e insultati dai troll, bollati di “venduti” e di altri epiteti irripetibili, dopo un po’ avevano mollato il colpo e lasciato la marca al proprio destino, scoraggiati e stufi di essere presi a male parole.

Un rapido controllo con altri strumenti più tradizionali, ha poi confermato un’opinione media verso l’azienda abbastanza positiva, anche se senza particolari trasporti emotivi, riconfermando anche che il fenomeno di odio era circoscritto a un piccolo numero di persone che agivano per motivi ideologici del tutto slegati dall’attività aziendale. Rientrato l’allarme rosso si è quindi provveduto a intervenire sui troll, per lasciare spazio a una più sensata e naturale conversazione tra azienda e utenti. Evitando così, quasi fortunosamente, interventi di risposta a una crisi inesistente che avrebbero rischiato di snaturare la natura e l’attività dell’azienda senza alcun valido motivo.

L’ascolto non basta?

Questa storia mi ha fatto riflettere. E mi fa sospettare che l’ascolto sia una parte importante, ma che forse, anche nell’era digitale, ancora non possiamo prescindere da attività di ricerca più tradizionali, di scoperta di fatti e opinioni non necessariamente espressi, ma comunque esistenti, che influenzano i comportamenti e gli acquisti delle persone, che forse celano atteggiamenti e opinioni, da parte della maggioranza silenziosa non necessariamente allineati con quelli della minoranza vocale tanto più facile da ascoltare.

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