La squadra prima di tutto
Nell’autunno del 2010, Bill Russell non si allacciava un paio di scarpe da basket da 41 anni. Aveva lavorato come allenatore NBA, commentatore televisivo, scrittore e speaker motivazionale. Noto per la sua diffidenza, con il tempo aveva abbassato un po’ la guardia, accettando di tagliare nastri, firmare autografi e consegnare trofei; quel genere di cose che in passato avrebbe denigrato. Era diventato l’eminenza grigia del basket.
Per me, tuttavia, Russell era ancora congelato negli anni Sessanta: era il personaggio centrale di un mistero insoluto. Anche mentre peroravo la causa della suprema importanza dei capitani, non capivo come qualcuno che aveva apertamente sfidato le convenzioni del suo sport e mostrato così tanto disprezzo in pubblico avesse potuto essere un leader di caratura superiore.
Sin dall’inizio della mia ricerca notai un fatto che accomunava Russell e gli altri capitani di Prima Fascia, e cioè che alla fine della loro carriera la gente diceva sempre una versione della stessa cosa: non ci sarebbe stato più nessuno come loro. Dato che non si conformavano ai nostri modelli teorici di leadership, i loro successi erano visti come incidenti di laboratorio che non potevano essere ripetuti. Se era così, mi domandai, che cosa mai potevo imparare studiandoli?
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Quell’autunno Russell concesse un’intervista al New York Times. L’occasione era la notizia che il presidente Barack Obama gli avrebbe conferito la Presidential Medal of Freedom, la più alta onorificenza data dal governo americano, come riconoscimento sia per i suoi risultati sportivi che per il sostegno costante ai diritti umani. A un certo punto, l’articolo citava en passant uno degli episodi più sconcertanti del passato di Russell, ossia il suo rifiuto nel 1975 di partecipare alla cerimonia dedicata al suo ingresso nella Hall of Fame. Russell disse di aver declinato l’invito perché riteneva che la sua carriera cestistica doveva essere ricordata come un simbolo del gioco di squadra.
Per quanto ne sapevo, era una frase che Russell non aveva mai pronunciato in precedenza. Ed era qualcosa che non avevo mai sentito dire da nessun atleta d’élite, men che meno in America. Nel paese dove è nata Hollywood, nella terra dell’individualismo più marcato, in un posto dove le persone dormono ancora su marciapiedi per potersi comprare le scarpe di Michael Jordan, la maggior parte delle superstar fa di tutto per spiccare.
Contavano solo i titoli
All’improvviso, i pezzi del puzzle della spiazzante personalità di Russell cominciarono a incastrarsi. Non segnava tanti punti perché la sua squadra non ne aveva bisogno. Non gli interessavano le statistiche e i riconoscimenti personali e non aveva alcun problema a lasciare che i compagni si prendessero i meriti. Non è mai stata una questione di contratti o di soldi ha detto una volta. Non ho mai fatto caso ai premi di MVP o a quanti elogi ricevevo. Ma solo a quanti titoli vincevamo. Russell si dedicava alla difesa, e a compiti noiosi che non rubavano l’occhio.
Mi venne in mente che il suo approccio al basket radicalmente difensivo e orientato alla squadra e il suo atteggiamento scontroso fuori dal campo erano i due lati della stessa medaglia. La sua resistenza ai premi del basket era un rifiuto all’istinto universale di separare gli individui dal collettivo. Il suo stile di leadership non aveva nulla a che fare con il mondo esterno o con la percezione che si aveva di lui, ma era interamente concentrata sulle dinamiche interne della squadra. Finché i Celtics vincevano, a lui non importava se nessuno notava il suo contributo.
I suoi compagni di squadra non lo consideravano complicato e distante; per loro assomigliava più a un eroe d’azione: semplice, costante e puro di cuore. Russell è stata la persona più vincente che io abbia mai frequentato, ha detto il suo compagno di squadra Tom Heinsohn. Ci aveva aiutato così tante volte, e credevamo molto in lui, c’era una comunione spirituale e una fiducia reciproca.
L’autore è riuscito nell’impresa di trovare una formula per rispondere a una domanda ambiziosa: quali sono le squadre più forti di tutti i tempi? Il segreto è avere un capitano fuori dal comune.
Russell non era una persona con problemi, come sospettato da alcuni. Mi resi conto che il suo modo di interpretare il ruolo del capitano era così insolito che nessuno lo riconobbe. Il pubblico non collegò mai la sua leadership atipica al successo atipico dei Celtics. Le due cose erano viste come separate, scollegate.
È vero che i capitani della Prima Fascia, nei diversi sport, sembravano unici. Non assomigliavano certo ai leader perfetti della nostra immaginazione. Tuttavia, mentre ne stilavo le biografie notai qualcos’altro: la grande somiglianza tra loro. I loro atteggiamenti e le loro convinzioni, e il modo in cui si approcciavano al proprio lavoro, combaciavano in maniera inquietante. Il comportamento impulsivo, imprudente e autolesionista che esibivano era, in realtà, pensato per rafforzare la squadra. I loro strani e apparentemente disqualificanti tratti personali non erano dannosi, anzi, in realtà rendevano i compagni più efficaci in campo. In fin dei conti, quelle donne e quegli uomini non erano aberrazioni. Erano membri di una tribù dimenticata.
Sette qualità per un capitano fuori dal comune
I grandi capitani, quelli delle squadre che hanno scritto la storia dello sport, avevano tutti sette qualità.
- Caparbietà e concentrazione estrema in gara.
- Gioco aggressivo che mette alla prova i limiti delle regole.
- Disponibilità a svolgere compiti ingrati nell’ombra.
- Stile di comunicazione di basso profilo, pragmatico e democratico.
- Capacità di motivare gli altri con gesti appassionati.
- Forti convinzioni e il coraggio di essere diversi.
- Ferreo controllo delle emozioni.
Ci sono anche alcune ricerche scientifiche che aiutano a spiegare perché le caratteristiche in questione hanno prodotto risultati da Prima Fascia. Questi sono i tratti che fanno grande un capitano perché, nell’esercitarli, fa grande la propria squadra.
Questo articolo richiama contenuti da La classe del capitano.
Immagine originale di Josh Calabrese su Unsplash.