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L’etica di WikiLeaks nuoce ai citizen media?

24 Gennaio 2011

L’etica di WikiLeaks nuoce ai citizen media?

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Il paradosso di un fenomeno percepito come frontiera del web, pur sposando relativamente poco la logica di partecipazione e condivisione della rete abitata dalle persone

Rudolf Elmer, ex manager della banca svizzera Julius Baer, è stato riconosciuto colpevole di violazione del segreto bancario. È stato condannato a pagare le spese processuali (7.200 franchi svizzeri, 5.600 euro) con la condizionale, scampando la galera. Passate un paio d’ore, viene però nuovamente arrestato. L’accusa? Qualche mese addietro aveva passato a WikiLeaks informazioni riservate sull’istituto di gestione patrimoniale e i suoi clienti. Bissando pochi giorni fa con la consegna a Julian Assange di altri due dischetti contenenti dati su 2.000 fra i principali clienti della banca. Un doppio arresto per “rivelazioni” largamente preannunciate dai titoli dei giornali sull’arrivo della lista dei conti offshore dei Vip consegnate da un ex banchiere ad Assange.

Etica hacker

Grazie all’ennesimo whistleblower e a WikiLeaks stavolta verremo a sapere i nomi di «alcune migliaia di multimilionari potenzialmente grandi evasori, tra cui una quarantina di politici». A conferma della mission di Julian Assange e soci: la pubblicazione diffusa di documentazione riservata allo scopo ultimo di imporre la massima trasparenza delle istituzioni, quale «garanzia di giustizia, di etica e di una più forte democrazia». Fiumi di inchiostro e di bit sono stati versati in queste settimane intorno a questa vicenda, sia a favore sia contro (assai utile l’ampia raccolta di The Atlantic, in inglese). Non sono mancate la retorica e l’enfasi, in particolare sulle testate tradizionali, sempre in cerca di un mostro o di un eroe da sbattere in prima pagina. Mentre online sono riemerse le cyber-utopie della salvezza che nei primi anni della rete, inizio anni ’90, accomunavano una ristretta elite di addetti ai lavori convinti che Internet potesse cambiare il mondo e che loro stessi avrebbero dovuto fungere da avanguardia incaricata di indicare la via. È lo stesso ambito in cui affonda le radici anche la cosiddetta etica hacker, che fa da propellente alla battaglia per la trasparenza totale portata avanti oggi da WikiLeaks.

Vale comunque la pena di riflettere in questa sede sull’onda lunga del rapporto tra il ruolo dei citizen media e l’etica di WikiLeaks. L’estrema spettacolarizzazione messa in atto è diretta a catturare in primis l’attenzione del mondo occidentale, ben oltre il contenuto e il senso stesso del materiale divulgato. Assai più sfumate le reazioni online in Sud America, ad esempio. E anche quando i cittadini danno vita a cloni di WikiLeaks, come accaduto in Indonesia, Tailandia e Filippine, ci si appella alla società civile per la ricerca di informazioni riservate o si fondano organizzazioni non-profit che lavorano apertamente con i blogger. Nell’area del Maghreb le reazioni sono apparse accorte ed equilibrate, rispetto alle prove di corruzioni governative già note a tutti. E lo scorso agosto, in occasione delle prime rivelazioni sulla guerra in Afghanistan, anche i blogger locali erano rimasti calmi, soprattutto perché lì quelle informazioni riservate non sembravano tali.

Attenzione

Inoltre, la pratica attuata è tipicamente verticale e consona ai canali mediatici tradizionali, giocoforza travasata (e finanche imposta) al fluire della conversazione online dove vigono invece consuetudini orizzontali, partecipative. Non a caso su blog, Twitter e Facebook la saga WikiLeaks ha prodotto toni e sfumature di ogni fattura, creando ancor più rumore del solito, forzando di fatto le discussioni e rifocalizzando l’attenzione di molti cyber-cittadini. Un contesto in cui di fatto è tornata a restringersi la “voce dei senza voce”, già penalizzata nei canali tradizionali e che va trovando forza quasi soltanto sull’onda dei citizen media.

Quando l’attenzione diventa uno dei beni primari (se non il primo in assoluto) del mondo dell’informazione odierna, un simile battage mediatico relega ancor più nell’angolino, tanto per dirne una, i tweet rilanciati via cellulare da qualche villaggio del Congo sui diamanti insanguinati o i video autoprodotti che documentano l’estrazione del coltan che foraggiano le guerre dimenticate. E chi si darà la briga di leggere le traduzioni non perfette (perché magari da testi o voci originali in dialetti locali) di post sui nativi brasiliani che apprendono l’uso dei social media per amplificare le loro battaglie sociali e ambientali? Perfino nei reportage di questi giorni sulle rivolte tunisine non mancano i riferimenti a certi cablogrammi di WikiLeaks, come a rendere più qualificanti le proteste, più degne di attenzione. Quando invece meglio sarebbe sottolineare il successo dei social media e dei materiali digitali prodotti da semplici cittadini sul campo come efficaci strumenti di trasparenza e democrazia (evitando però le esagerazioni di analoghi casi in cui si era addirittura parlato di Twitter Revolution).

Wiki?

Altro possibile danno collaterale per la condivisione online innescato dalle mosse di Julian Assange è l’equivoco sul termine (e ancor più sulla pratica) del wiki: solo all’epoca del lancio nel 2006 WikiLeaks ha brevemente prodotto contenuti modificabili dagli utenti (tipo Wikipedia), per poi spostarsi sul modello editoriale tradizionale chiuso a commenti o editing esterni. E concentrandosi sempre più sulle rivelazioni di gole profonde di alto livello. Come ha ribadito Jimmy Wales di Wikipedia in una recente intervista a BBC News: «Il loro lavoro non ha nulla a che fare con la stesura collaborativa di contenuti, cioè la base stessa di Wikipedia. Però molta gente confonde ancora le due entità, incluso il personale di sicurezza negli aeroporti».

Mirando a «fare la guerra alle superpotenze» e a rivangare obsolete teorie cospirative, WikiLeaks si pone insomma come una sorta di avanguardia interessata soprattutto ai riflettori mediatici, nel bene e nel male. Rischiando così di creare inutili scontri ideologici nello stesso fluire digitale e di provocare un effetto boomerang proprio ai danni di quei netizen che meglio sanno come perseguire ritmi e obiettivi locali. Nell’odierno villaggio globale – condiviso, partecipato, orizzontale – ha poco senso incensare cyber-elite che svelano al mondo segreti di Stato o i conti offshore dei Vip, veri o presunti che siano. Né conviene a nessuno fare di Assange un eroe dell’etica hacker, per tenerlo invece a più modesto e concreto esempio di trasparenza e attivismo per la vita di tutti i giorni. Quel che conta è tirarsi su le maniche per allargare l’area della partecipazione, passo dopo passo, online e offline.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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