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L’opportunità del dividendo digitale

20 Marzo 2007

L’opportunità del dividendo digitale

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Mentre in Sardegna il digitale terrestre fa le prime prove di switch off, si comincia a pensare a come riutilizzare le preziose frequenze lasciate libere dal segnale televisivo analogico

Il recente parziale spegnimento del segnale analogico sulla zona di Cagliari ha segnato, per usare le parole del Ministro Paolo Gentiloni, un «primo passo concreto» nella transizione del sistema televisivo italiano verso la trasmissione digitale. Dal 1° marzo 2007 infatti, 560.000 cittadini di 123 comuni del sud della Sardegna vedono RaiDue e Rete4 solo attraverso un decoder, sia esso digitale terrestre o satellitare, segnando l’avvio del percorso che dovrebbe portare alla completa digitalizzazione delle trasmissioni dell’isola prevista per il marzo del 2008.

Ma insieme alle soddisfazioni per il risultato finalmente raggiunto, si sono contemporaneamente riaperti i dibattiti relativi all’utilizzo dello spettro di frequenze ora in uso al servizio televisivo. É degli ultimi giorni di febbraio la richiesta, avanzata dalla sezione europea della GSM Association che conta 700 operatori in 217 paesi del mondo GSM Europe alla Commissione europea, di destinare parte delle frequenze attualmente utilizzate dalla televisione analogica ad applicazioni di telecomunicazione fisse e mobili. Secondo Kaisu Karvala, chairman di GSME, « le caratteristiche di propagazione delle frequenze della banda UHF potrebbero facilitare la realizzazione di reti di comunicazione mobile in grado di raggiungere aree scarsamente popolate che sarebbe troppo costoso coprire con sistemi operanti su bande più alte, assicurando che il dividendo digitale possa venire incontro alle esigenze di chi vive in queste aree, vittime del digital divide ».

Il dividendo digitale

Che lo spettro elettromagnetico sia una risorsa scarsa dal cui utilizzo dipendono attività industriali di primaria importanza economica è un dato di fatto; le onde elettromagnetiche però non sono tutte uguali, ma le loro caratteristiche fisiche sono suddivise in uno spettro che varia da frequenze molto basse ad altre molto alte. Se le onde molto basse hanno la capacità di propagarsi in maniera molto efficace, ma sono in grado di portare con sé poche informazioni, quelle molto alte, al contrario, viaggiano con meno facilità, ma hanno una grande capacità di trasporto. Fra le tipologie di onde disponibili, quelle economicamente più ambite sono ovviamente le frequenze in grado di rappresentare un valido compromesso fra entrambe le caratteristiche. Una lunghezza d’onda con una buona propagazione, infatti, chiederà all’operatore che la utilizza un minore investimento in infrastrutture – come ripetitori o trasmettitori – per realizzare il servizio, e darà la possibilità di raggiungere con il proprio segnale l’interno di edifici o remote aree rurali. Al tempo stesso, una buona capacità di trasporto permetterà di realizzare la diffusione di contenuti ad alto valore comunicativo, come video, voce alta qualità, e dati.

Ad oggi, buona parte delle frequenze caratterizzate da una buona propagazione e una ottimale capacità – quelle fra i 200 MHz ed 1Ghz – sono destinate al servizio televisivo analogico. Quando verso la fine degli anni ’50 si decise di utilizzarle a questo scopo, la televisione muoveva i primi passi e non erano nemmeno possibile provare ad ipotizzare le alternative create dalle innovazioni recenti. Ci si concentrò sulla necessità di ridurre l’impegno infrastrutturale, e in assenza di stringenti necessità di ottimizzazione dello spettro, sembrò inevitabile assegnare una delle migliori porzioni dello spettro al servizio televisivo.

Oggi però, la transizione dalla trasmissione analogica a quella digitale introduce un significativo miglioramento nell’efficienza dell’utilizzo delle frequenze ed un aumento della loro capacità di trasporto: dove prima, con il sistema analogico, era possibile veicolare un solo canale televisivo, ora con la tecnologia digitale terrestre possono viaggiare almeno sei servizi televisivi. Anche considerando l’avvio delle trasmissioni di nuovi operatori, uno switch-off completo del sistema televisivo analogico creerebbe una disponibilità di spazi trasmissivi talmente grande da ritenere possibile una ridiscussione del loro utilizzo per scopi diversi da quelli televisivi. Questa capacità di trasmissione in eccesso è il dividendo digitale.

L’esperienza inglese

Nel 2003, il corrispettivo inglese della nostra Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, l’Office of Communications (Ofcom), ha avviato un progetto di studio per individuare una proposta di approccio nei confronti del dividendo digitale risultante da uno switch-over nazionale – da analogico a digitale – del servizio televisivo. L’obiettivo della ricerca è quello di individuare le modalità di assegnazione che massimizzino i benefici dei cittadini e dei consumatori derivanti dall’uso delle frequenze elettromagnetiche che si libereranno, tenendo conto del fatto che la domanda di utilizzo da parte di servizi wireless innovativi è in costante crescita e che lo sfruttamento dello spettro per la realizzazione di servizi di comunicazione mobile e di broadcasting incide per il 3% dell’economia nazionale, più dell’industria energetica e dell’acqua calcolate insieme. Quando nel 2012 le trasmissioni televisive su tutta l’isola verranno effettuate esclusivamente in tecnica digitale (il primo switch-over verrà effettuato per 25.000 famiglie il 17 ottobre di quest’anno), uno spazio di almeno 128 MHz, corrispondenti a 16 degli attuali canali televisivi precendentemente assegnati, sarà disponibile per nuovi utilizzi.

La proposta di consultazione pubblicata dall’Ofcom nel dicembre 2006 individua alcuni dei servizi alternativi che potrebbero utilizzare le frequenze liberate:

  • televisione mobile, ed altri tipi di servizi di fruizione di video e contenuti multimediali in movimento;
  • canali di tv digitale terrestre orientati al mercato nazionale in definizione standard SD;
  • canali di tv digitale terrestre orientati al mercato nazionale in alta definizione HD;
  • canali di tv digitale terrestre orientati al mercato locale;
  • microfoni senza fili, ed altri servizi di supporto alla produzione di contenuti e di eventi speciali (per esempio, concerti live);
  • applicazioni a banda larga wireless come il WiMax, anche di tipo mobile;
  • servizi di comunicazione mobile;
  • centri wireless di distribuzione di contenuti in ambito casalingo;
  • servizi di comunicazione via satellite;
  • servizi di pubblica sicurezza o emergenza.

Per la riassegnazione delle frequenze liberate sulla base dei precisi piani governativi, l’Ofcom propone un approccio decisamente market led, con una messa all’asta degli spazi. Lo scopo dichiarato non è quello di massimizzare le entrate dell’erario, ma il ritagliarsi un ruolo da regolatore-supervisore, finalizzato a garantire la flessibilità degli utilizzi e la massimizzazione delle iniziative innovative. Nell’ambito delle analisi che ha effettuato, l’Ofcom non ha comunque dimenticato di segnalare il valore che le frequenze liberate rivestirebbero per i cittadini se esse fossero utilizzate per garantire una maggiore scelta di canali televisivi tramite il digitale terrestre. E la loro strategica importanza per consentire la copertura di zone rurali con servizi a banda larga senza fili.

Digital divide e digital dividend

Si ritiene infatti che la diffusione di servizi digitali nelle frequenze liberate potrebbe avere un ruolo particolarmente importante nella riduzione di quella distanza sociale, o digital divide, che separa nella società dell’informazione i cittadini che hanno accesso ai servizi digitali da quelli che, invece, possono essere considerati dei veri e propri analfabeti informatici. Che questa separazione esista, nel mondo come in Italia, lo conferma un recente studio di Confidustria-Anie sulla diffusione e l’utilizzo di strumenti digitali nelle famiglie del nostro paese. Dai dati è emersa una netta spaccatura della nostra nazione in due gruppi distinti: da una parte quelle famiglie (il 56.5% del totale) che possiedono un collegamento a banda larga ad Internet e che utilizzano cellulari UMTS, stampanti multifunzionali, lettori Mp3, televisori al plasma o a cristalli liquidi. Dall’altra quelle a bassissima intensità tecnologica, quello zoccolo duro di nuclei familiari composti di persone anziane, casalinghe e pensionati completamente non informatizzati o segnati da una scarsa conoscenza dell’inglese. Come superare questa distanza culturale e realizzare gli auspici di un insieme di tecnologie che rafforzino la democrazia, come espresso da Stefano Rodotà in un recente discorso a Montecitorio?

Le analisi degli operatori di telefonia mobile sembrano fornire una risposta, per lo meno relativa al collegamento alla Rete delle famiglie che sono al momento escluse dalla banda larga per questioni geograficamente sfavorevoli. Nella prospettiva di una fornitura estesa di servizi broadband senza fili, l’utilizzo di frequenze al di sotto di 1 GHz consentirebbero la creazione di celle di trasmissione a raggio più esteso, e quindi l’installazione di un minor numero di ripetitori. Ne conseguirebbe un contenimento dei costi di installazione ed una relativa garanzia di coprire le aree meno densamente popolate già oggi escluse dalle reti ADSL: un primo passo per riduzione del digital divide “strutturale”, che potrebbe diventare un presupposto per il superamento di quello culturale.

Intanto in Italia…

L’occupazione delle frequenze televisive nel nostro Paese è stata segnata dai 14 anni che sono stati necessari a dare una regolamentazione all’iniziativa privata nel sistema dopo la liberalizzazione avvenuta nel 1976 ad opera della Corte costituzionale. Il numero di televisioni private operanti in Italia non ha eguali in Europa (l’ultimo rapporto economico della Federazione RadioTelevisioni ne registra 600), e la relazione introduttiva letta dal Ministro Gentiloni in occasione della presentazione al Consiglio dei Ministri del disegno di legge sulla riforma del sistema televisivo non ha usato mezzi termini nel definire quella dello spettro elettromagnetico «una situazione largamente compromessa […], la cui gestione efficiente, secondo i principi dell’ordinamento vigente, è ostacolata da una storica e consolidata situazione di occupazione di fatto delle frequenze».

L’articolo 3 del disegno di legge Gentiloni, che attualmente sta seguendo il lungo iter parlamentare di audizioni preliminari alla discussione in Aula, contiene una proposta di norme volte a regolamentare l’utilizzo delle frequenze nella transizione dalla trasmissione analogica a quella digitale. Lo scopo primario sembra essere principalmente il tentativo di agevolare l’entrata di nuovi operatori sul mercato televisivo: dopo aver stabilito le condizioni per cui alcune frequenze attualmente di proprietà dei soggetti dominanti sul mercato debbano essere rese disponibili, il d.d.l. determina che queste risorse vengano riassegnate «attraverso procedure pubbliche, con modalità stabilite dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, incentivando progetti che assicurino la più ampia copertura, nel rispetto dei criteri di obiettività, trasparenza, non discriminazione e proporzionalità previsti dall’ordinamento, e con la previsione di quote di riserva a favore dell’emittenza locale, fatti salvi i diritti acquisiti».

E a ribadire questo concetto, il Ministro ha ricordato qualche giorno fa che «il passaggio alla tv digitale dovrà avere come conseguenza un dividendo digitale, una redistribuzione di frequenze, perchè questo è uno degli obiettivi principali del passaggio tecnologico e non potrà essere disatteso», precisando che questa non avverrà a costo zero. Nel frattempo, Rai ha inserito nei propri multiplex 10 nuovi servizi denominato Rai HD e Mediaset, in occasione dello switch-off della zona di Cagliari, ha avviato la trasmissione di un segnale ad alta definizione nella frequenza precedentemente occupata dai programmi analogici. Lasciando al presidente Fedele Confalonieri il compito di ribadire che la trasmissione di canali HD proseguirà anche nelle prossime aree interessate da switch-off.

Il futuro del digitale terrestre è in alta definizione?

Quella della trasmissione di programmi ad alta definizione con la tecnologia digitale terrestre è una delle opzioni che vengono individuate a seguito della digitalizzazione della trasmissione televisiva, e che comincia a essere tecnologicamente percorribile con la disponibilità dei primi decoder in grado di visualizzare immagini compresse con algoritmi H.264, più performanti rispetto a quelli MPEG2 attualmente utilizzati. Una trasmissione in alta definizione, caratterizzata da un numero anche quattro volte maggiore di pixel da visualizzare sullo schermo rispetto a una tradizionale immagine televisiva, sarebbe tuttavia ora tecnologicamente compatibile con la necessità individuata da una recente delibera dell’Autorità garante nella quale si prefigura l’obbligo per le emittenti di concedere a terzi almeno il 40% della capacità trasmissiva della propria frequenza digitalizzata.

L’opportunità di trasmettere immagini ad alta definizione sulle frequenze terrestri sembra essere, secondo alcuni analisti, una delle opportunità che rimangono al broadcasting su frequenze terrestri per rivestire un ruolo di rilievo in un contesto televisivo digitale multipiattaforma caratterizzato da una moltiplicazione degli input diretti allo schermo televisivo trasformato in monitor. Philip Laven, il direttore del technical deptartment dell’European Broadcasting Union (EBU), ha provato ad elencarne le ragioni nell’editoriale dell’ultimo numero del Technical Review dell’associazione. Laven spiega come, per la prima volta nella storia delle tecnologie, i consumatori stiano acquistando un hardware (gli schermi televisivi HD ready) senza che per essi sia disponibile un software degnamente distribuito, sia esso trasmesso o contenuto in supporti preregistrati quali Dvd. Il fatto di non trasmettere contenuti in alta definizione potrebbe essere per il sistema delle emittenti televisive una strategia suicida, che favorirebbe inutilmente altre piattaforme quali ad esempio le console videogame, già in grado di visualizzare immagini ad alta definizione di sintesi o registrate su HD-DVD o Blu-ray disc. Spinti dalla sete di una maggiore qualità d’immagine da dare in pasto ai loro nuovi televisori, gli utenti secondo Laven andranno inevitabilmente a cercare contenuti in alta definizione dovunque siano disponibili. E finiranno per notare sempre di più la grande differenza di qualità delle trasmissioni tradizionali in standard definition, col rischio di dedicare una quantità sempre crescente del proprio tempo televisivo a piattaforme che forniscono contenuti HD.

Il punto della questione è questo: sia esso in alta definizione o no, trasmesso su onde terrestri o satellitari, proveniente via IP dal vecchio doppino telefonico o tramite WI-MAX, ciò che emerge dalle parole di Laven così come dall’esperienza di un qualunque utente tecnologicamente attento è come il futuro dei contenuti televisivi sia sempre di più destinato ad una molteplicità di piattaforme concorrenti, che sgomitano già ora per guadagnarsi spazio sullo schermo. Presto o tardi, gli utenti abbandoneranno inevitabilmente le vecchie trasmissioni analogiche, ma nessuno sembra avere ad oggi la certezza di quale sistema, o quale combinazione di sistemi, essi utilizzeranno per continuare a vedere la televisione. Ma una cosa su cui cittadini ed imprese insieme non hanno dubbi, è che oggi, in un contesto in continuo mutamento ed in incessante evoluzione, le frequenze di trasmissione pregiate sono una risorsa strategica di vitale importanza; e l’esempio delle iniziative inglesi chiama l’Italia a confrontarsi degnamente in un contesto europeo, raccogliendo la sfida di una regolamentazione attenta e strategicamente votata allo sviluppo.

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