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«Ma il telefonino resterà un telefonino»

10 Novembre 2006

«Ma il telefonino resterà un telefonino»

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Nella ricerca di nuovi mercati e di convergenze ibride il cellulare è diventato fotofonino, videofonino, tivufonino, smartphone. Che cosa rimane dello strumento che era? Come lo usano gli adolescenti? Come viene usato per superare il limiti imposti dagli operatori e i costi dei vari servizi? Ne parla Barbara Scifo, ricercatrice dell’Università Cattolica di Milano e autrice di un saggio sulle culture mobili

C’era una volta il telefono cellulare. Appena nato era una tecnologia progettata per fare una cosa sola: telefonare. Telefonare fuori casa, in mobilità: la meraviglia di un telefono incorporato e personale, pronto e disponibile a ogni spuntar di voglia comunicativa con l’altro lontano. Ecco perchè si è diffuso così tanto. Anche in l’Italia, che è diventata negli anni la nazione con il più alto tasso di penetrazione dei cellulari. Poi il telefono cellulare ha iniziato a fare anche altro: sms testuali, mms multimediali, fotocamere e videocamere, giochi, musica e suonerie, Internet, televisione. E ha perso parte della sua primigenia identità come nei più classici dei miti: a partire dal nome. Il telefonino è diventato fotofonino, videofonino, tivufonino. È diventato radio, playstation, lettore musicale, torcia. È diventato addirittura più intelligente, uno smartphone: in modo inversamente proporzionale alle sue dimensioni (sempre più miniaturizzate), sono aumentate a dismisura funzioni, tecnologie, applicazioni. Più che “tutto intorno a te”, come da famoso slogan, è tutto dentro, ai cellulari di nuova generazione. Il risultato? In molti sono partiti alla rincorsa della fantomatica “convergenza” mobile di media e strumenti: parolina magica che solletica sogni di gloria aziendali. Con il risultato che, distratti da bizzarri ibridi mediali e nuove improbabili novità tecnologiche, si è spesso perso di vista l’aspetto sociale del cellulare. Come viene usato, da chi, e perché. Ne abbiamo parlato con Barbara Scifo, ricercatrice dell’Università Cattolica di Milano, che da tempo studia gli usi e le culture della telefonia mobile, con particolare attenzione all’adozione da parte degli adolescenti, sensibili per definizione a tecnologie socializzanti come il cellulare. Gli adolescenti sono anche uno dei target più sfuggenti e desiderati dagli operatori del settore, che spesso e volentieri fanno il successo o l’insuccesso di tecnologie o innovazioni.

Gli adolescenti che hai intervistato nelle tue ricerche sembrano inventarne sempre una più del diavolo, quando si tratta di cellulari. C’è un motivo per il quale lo usano così tanto?

Lo stesso motivo per cui lo usiamo tutti: per stare in contatto con la propria sfera relazionale. Il cellulare ha perso nel tempo molto del suo valore simbolico, di status symbol, che invece aveva nei primi anni. Solo in alcune nicchie tecnologiche, penso ai cellulari di ultimissima generazione, ritornano alcuni processi tipici della prima fase di diffusione e incorporazione di questa tecnologia. Ma la prima dimensione del consumo di telefonia cellulare è legata alla necessità di aumentare e rafforzare la propria sfera affettiva, personale e relazionale, portandosela sempre con sé: io credo che rimanga ancora l’unico vero motivo per cui lo usiamo. E soprattutto lo usano gli adolescenti.

Eppure il cellulare sta diventando sempre più qualcos’altro, un palmare, un televisore…

Sono molto perplessa all’idea che il cellulare possa convertirsi realmente in qualcos’altro – quantomeno come significato percepito dalle persone. L’idea della convergenza ha enormi potenzialità rispetto a certe utenze evolute. Ma non si dovrebbe dimenticare che il posto del cellulare nel nostro universo di consumi è principalmente come strumento di legame con la nostra sfera affettiva.

Vuol dire che non è percepito come un medium?

È percepito come un medium personale, legato alla comunicazione interpersonale. Il resto può essere una funzione integrativa ma non è il motivo che fa scattare la necessità di averne uno o spesso più d’uno.Per quanto riguarda i giovani, per esempio, il cellulare viene dato ai ragazzi dai genitori proprio per riuscire a mantenere un doppio filo sia di legame che di emancipazione dalla famiglia – non certo per guardare la tv.

È questa la cosiddetta generazione mobile?

Con generazione di solito si intende la coincidenza della propria biografia con un determinato periodo storico. La prima vera generazione mobile è quindi quella degli adolescenti degli anni ’90. Che hanno vissuto in prima persona l’introduzione del telefonino nelle loro vite quotidiane e l’hanno, di fatto, “addomesticato”. Hanno stabilito regole e abitudini d’uso, deciso insieme cosa era quell’oggetto che avevano in mano, e a cosa potesse servire. Di contro è pur vero che tutti gli adolescenti successivi a quella generazione usano comunque il cellulare in un modo più intenso, originale e creativo di quanto non lo facciano gli adulti. In realtà quindi, per quanto riguarda l’uso dei cellulari, il concetto di generazione si sovrappone a quello di età.

È così diverso l’uso che adolescenti e adulti fanno del cellulare?

Sì. Una delle primissime domande sulla prima generazione mobile era: ma una volta cresciuti, questi ragazzi si omologheranno al consumo tipico del mondo adulto? La risposta è che c’è una tendenza all’omologazione. I ragazzi man mano che aumenta l’età lo usano sempre meno in termini affettivi e relazionali, e sempre più in modo strumentale. Molte più chiamate, per esempio; si riducono i messaggi e gli squillini. Il cellulare diventa meno un gioco e più strumento di comunicazione funzionale.

Lo squillino, per esempio, è un semplice squillo senza risposta. Qual è il suo significato?

Innanzitutto lo squillino è legato a un fattore di ordine economico, interpretato però in modo creativo. L’obiettivo principale è infatti quello di “bypassare” l’operatore e arrivare a comunicare con un interlocutore senza pagare un euro. Nonostante sia una modalità di comunicazione non strutturata (senza testo, immagini, o altro), lo squillino nasconde un mondo molto esteso di significati. Una comunicazione che tecnologicamente è di grado zero, la meno sofisticata concepibile. Eppure è usatissima, ed efficace.

Una bestemmia per chi cerca di immettere nei cellulari sempre più multimedialità.

È un potente paradosso. Proprio nell’era della multimedialità più spinta, l’uso più semplice, più banale, più apparentemente insignificante della telefonia mobile è invece quello che assume una potenza comunicativa straordinaria. Ma perché il cellulare è soprattutto socialità.

Intorno ai telefonini girano anche un bel po’ di soldi. La pratica degli squillini invece nasce e si sviluppa al di fuori di qualsiasi tipo di pubblicità o promozione dall’alto.

È l’originalità di questo fenomeno. Che nasce da bisogni provenienti dal basso, non influenzato da campagne istituzionali o promozionali. Anzi: nasce proprio come reazione alla dimensione prettamente economica del mondo della telefonia mobile. Il fenomeno degli squillini ci dice che rimane comunque un margine d’incertezza sugli usi finali delle tecnologie da parte dei consumatori. E che le tecnologie possono avere percorsi imprevisti. Come per esempio gli sms, che hanno avuto un successo inizialmente non previsto dagli operatori. Ma, guarda caso, quando questi ultimi hanno provato a fare la stessa cosa con i più evoluti mms, non ha funzionato.

Il problema degli mms è solo il costo?

È il problema più rilevante ma non il solo. Per esempio, la fotocamera e la videocamera integrate sul cellulare sono molto usate, e non solo dagli adolescenti. Servono ancora una volta per alimentare i propri legami di prossimità. La gente fa le foto per mostrarle agli amici subito dopo averle scattate, oppure per poterle mostrare in un secondo momento, oppure ancora per mandarle ad altri. In questo ultimo caso, più che via mms, sono usati l’email o il bluetooth. Ancora una volta si cerca di superare il problema economico in maniera creativa. Inoltre la comunicazione via mms non può funzionare come l’sms testuale, come ritualità quotidiana. È una eccezione legata a una occasione speciale, che proprio perché tale merita di essere fotografata. È difficile convertire la comunicazione visiva in vero e proprio codice comunicativo.

Tu scrivi di “memoria fotografica” per le foto scattate con il cellulare. Anche gli sms rimangono spesso come memoria testuale, magari per ricordarsi di rapporti e momenti importanti…

Pensa che in una prima fase della tecnologia mobile, in cui la capienza della memoria dei cellulari era limitata, soprattutto le adolescenti, pur di non perderli, li trascrivevano a mano sul diario. È emblematico come gli sms siano percepiti come elementi di un diario, ovvero come elementi di costruzione e ricostruzione della propria identità e della propria memoria.

E il tivufonino? Si parla da più parti di un flop, eppure molte aziende continuano a pensare a investimenti di lungo periodo.

La mia impressione è che vi sia una forte resistenza di partenza. C’è un disinteresse assolutamente esplicito di una certa utenza che non concepisce la conversione del cellulare da strumento di comunicazione interpersonale ad altro; c’è un disinteresse legato al fatto di non essere forti utenti televisivi in generale; infine un disinteresse “ideologico” che giudica il tivufonino allo stesso modo dei cellulari dei primordi, come consumo ostentativo. C’è poi chi invece non ha tutto questo universo di resistenze. E sono i più tecnologici o anche chi ha un consumo a forte centralità televisiva (per esempio gli appassionati di reality).

Gli adolescenti che ne pensano?

Al di là del costo, il problema è che ai giovani manca l’elemento di mobilità, che è il vero vantaggio competitivo del tivufonino. Quindi il punto è se il tivufonino riuscirà a sostituire lo schermo principale di casa come tv a fruizione personale, come è successo per il cellulare che ha in parte sostituito il telefono di casa. Ma ormai in molte case gli adolescenti hanno il televisore in camera, o il computer, ed è tutta un’altra storia.

Forse per questo le strategie di promozione del tivufonino sembrano rivolte agli adulti.

Certo. Innanzitutto per una questione di costi. Ma anche perché gli adulti passano più tempo fuori casa o in mobilità. C’è poi un altro aspetto.

Temo c’entri il calcio.

C’entra. In Italia la leva per lanciar il tivufonino è stato il Mondiale di calcio, e, al di là delle vendite nel breve periodo, l’effetto è stato quello di ancorare una tecnologia ad un contenuto. Un contenuto peraltro non esclusivo, perché le partite si potevano vedere anche altrove, e più comodamente. Avrebbe avuto più senso promuoverlo come oggetto in sé. La stessa cosa è successa con il digitale terrestre. Chi ha il digitale terrestre lo ha preso solo per il calcio, e non ha idea di cosa ci sia negli altri canali. Questo ancoraggio “tematico” ha forse limitato le potenzialità di sviluppo di queste nuove tecnologie.

Nel tuo saggio Culture mobili, scrivi che il cellulare costruisce una sorta di palinsesto sociale che non è eterodiretto come in altri media. Mi ricorda Internet. È corretto a tuo parere parlare di un processo di rottura dei palinsesti che collega Internet al cellulare?

Non del tutto, almeno non in questi termini. L’uso del cellulare è legato a una temporalità sociale dettata dai ritmi della vita quotidiana: c’è una sorta di codice condiviso e spesso implicito per cui lo si può usare in certi momenti e non in altri. L’esigenza di destrutturare la temporalità dei media tradizionali mi sembra una tendenza evidente anche nella Rete: in questo senso c’è una analogia. Tuttavia ho l’impressione che gli adolescenti siano intimamente convinti che Internet e il cellulare siano due cose che non hanno molti legami tra di loro. Nel senso che il cellulare serve per telefonare e tenersi in contatto, mentre Internet è per i contenuti. Che mi posso anche gestire in modo personale grazie a blog e social network. Ecco un altro elemento che sembra andare contro l’idea di convergenza: in termini di usi e rappresentazioni sociali i due media sono considerati molto importanti, i ragazzi non saprebbero dirti se è più importante l’uno o l’altro, ma assolvono a due funzioni diverse.

La convergenza esce fuori come fosse una chimera, desiderata perché non esiste o è difficile da raggiungere.

Esistono in realtà dei punti di convergenza. Uno dei punti di vera convergenza tra il telefonino e Internet è la musica. Scarico degli Mp3 e poi li metto come suoneria, per esempio. Ma è una convergenza parziale su un aspetto parziale, in concorrenza peraltro con iPod e simili. Mi ripeto: penso che la convergenza sia molto più un peraltro legittimo tentativo delle aziende di trovare nuovi mercati remunerativi, che non una esigenza reale degli utenti. Gli adolescenti, per esempio, se pensano a un luogo di convergenza, pensano direttamente al computer.

L'autore

  • Antonio Sofi
    Antonio Sofi è autore televisivo e giornalista. Consulente politico e sociologo della comunicazione, ha un blog dal 2003 ed è esperto di social network e nuovi media.

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