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Mi fa un’internet al volo, che oggi ho fretta?

12 Febbraio 2010

Mi fa un’internet al volo, che oggi ho fretta?

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La rete e il digitale sono sinonimo di immediatezza. Quanto è un bene e quanto è un male, sia dal punto di vista personale che da quello aziendale?

Viviamo in tempi esponenziali. Se già non lo conoscete, date un’occhiata a Did you Know, un video che, seppure un po’ datato, dà una buona idea di quanto stiamo andando veloci verso l’incognito. Guardate e rabbrividite. Internet e il digitale sono allo stesso causa e vittime di questa fretta. Causa o almeno compartecipe di uno shift culturale. È la civiltà/cultura della fretta. Essere presenti nel minor tempo possibile. Avere le risposte nel minor tempo possibile. Dover fornire le risposte nel minor tempo possibile. Quello che era veloce a gennaio di quest’anno a questo punto è già lento. Il pianeta ha smesso di dormire.

Il cliente ha sempre ragione?

Il trionfo del tutto e subito. La carta è drammaticamente troppo lenta. L’email pure. Twitter per ora sembra reggere l’esigenza di istantaneità. Meglio Skype o le chat. Con internet ci stiamo avviando verso un’era dove il soddisfacimento immediato è un pesante vantaggio competitivo. Dove la reazione allo stimolo dell’utente deve quasi essere un movimento istintivo, come quando ci si tuffa di lato – senza riflettere, per evitare un treno in corsa. E la paura viene dopo. Questa fretta noi addetti ai lavori la vediamo anche dal nostro lato della barricata. Come minimo dalle richieste dei clienti, delle aziende. Instant branding. Instant results (con investimenti ben al di sotto di quello che sarebbe ragionevole, in troppi casi). Instant strategy, dove si chiede pensiero profondo ma istantaneo.

Si rifiutano strategie fotocopia, ma non sono previsti i tempi per pensare bene a qualcosa di originale. Solo le riunioni aziendali sembrano sfuggire alla regola della velocità (almeno quando non diverranno realtà le riunioni Twitter). Una fretta anche sul fronte dei risultati: ci si attende che il digitale porti risultati nel giro di poche settimane, raddrizzi vendite incrinate dalla crisi e da anni di mismanagement della marca. Che ci porti istantaneamente migliaia di followers o meglio di fan.

Vari gradi di impossibilità

Ora, che il digitale possa fare dei miracoli (rispetto a quello che si poteva fare una volta) è fuori di dubbio. Che le persone della generazione 2.0 siano più veloci è anche questa una verità. Ma ci sono dei meccanismi umani che anche nell’era del virtuale fanno fatica ad evolversi. Ad innamorarsi, per esempio, continuiamo a metterci un certo tempo (non parlo di infatuazione passeggera, parlo di quell’amore vero che dà origine a matrimoni felici e a rapporti di fedeltà con mogli e brands). Il nostro cervello e il nostro cuore devono pur sempre passare attraverso dei meccanismi di elaborazione degli stimoli. Tolto il raro caso in cui la nostra marca abbia davvero qualcosa di significativo/rivoluzionario da dire, ci va il suo tempo. Si può perdere la testa per una sventola tutta curve (come si diceva ai miei tempi), con una normale o a una bruttina forse ci va un po’ più di tempo (se perdonate il mio insopportabile sessismo, ma si sa che negli uomini le donne non guardano la bellezza ma le mani, gli occhi o l’intelligenza, no? ;-).

Molto spesso alla marca viene impedito anche di toccare i tasti della trasgressione, dell’unconventional, del dare la parola nell’engagement. Come se a una zitella in cerca di marito venisse impedito di mettersi un po’ in tiro, dato che quel modo di comunicare non è coerente con i valori della marca. Lecito, corretto, ma se non posso passare per la seduzione, se magari non posso nemmeno cucinarti qualcosa di appetitoso per arrivare al cuore attraverso lo stomaco (gratis: vedi alla voce freeconomy), ce la giochiamo su piani probabilmente più profondi… ma anche molto più lenti. Costruiamo la marca attraverso la costanza, le performance, l’autenticità, la solidità… il tempo.

Ma il tempo non c’è. Per le società quotate in borsa i risultati trimestrali, mensili, settimanali sono il termometro con cui si misura il management e la sua sopravvivenza. Gli azionisti pretendono dividendi, soldi, tanti e subito. Non c’è più il tempo di costruire marche e relazioni come una volta si poteva fare. Mi è rimasto in mente il caso di una nota azienda alimentare italiana non quotata: ho lavorato alla sperimentazione di certi suoi prodotti. Poi li ho visti arrivare sul mercato 25 anni dopo. Senza fretta. Senza pressioni da parte degli azionisti. Probabilmente facendo la cosa giusta solo quando era il momento giusto.

La via di mezzo

Il digitale, tecnologicamente ci dà le chiavi dell’ubiquità e dell’istantaneità. Ma è proprio quello che sempre e comunque funziona? Questa cultura della fretta, sia dal lato business che dal lato umano, è davvero funzionale? Questa impazienza, che sta diventando il fattore comune della popolazione occidentale, non sembrerà sempre più assurda alle popolazioni meno tecnologiche ma forse più sagge? Senza nemmeno entrare nello spinoso tema degli obiettivi della vita (e non sarebbe male prima o poi parlarne a livello allargato, magari esplorando il concetto di Felicità Interna Lorda del Bhutan), che cosa ne sarà di quel gusto dell’approfondimento che è alla base di tanta parte dell’uso della Rete? Dell’esplorazione, della ricerca di capire, piuttosto che di immagazzinare nozioni o risposte usa e getta? Riusciremo ad arrivare a una cultura della fretta che si interseca con un ritrovato gusto dell’approfondimento? Una felice sintesi della frattura schizofrenica che sembra tanto evidente a chi vive nelle grandi metropoli del terziario avanzato? E noi che “facciamo il digitale” riusciremo ad arrivare ad una felice sintesi tra qualità e velocità, tra time to market e pensiero profondo?

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