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Nascere e crescere sul pianeta digitale

12 Novembre 2008

Nascere e crescere sul pianeta digitale

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Dagli Stati Uniti arriva un’indagine articolata e globale per comprendere la prima generazione di nativi digitali e dare collettivamente forma al futuro prossimo venturo, tra sovraccarico di informazioni, nuove modalità di fruizione e scommesse formative

«Ho davvero bisogno di controllare la email in autobus? Devo esserne inseguita finanche nella mensa universitaria? O in palestra? La natura pressoché infinita di Internet ha creato un sovraccarico d’informazione e la proliferazione dei siti disocial networking sta portando a un analogo overload». «Laddove i miei genitori un tempo lamentavano soltanto di doversi destreggiare tra massicce quantità di email, oggi abbiamo raggiunto lo stesso eccesso nei messaggi scambiati su Facebook, Twitter, Pownce, LinkedIn eccetera eccetera. Quali sono le implicazioni del miscuglio continuo tra socializzazione e lavoro? E come porsi di fronte a tutto ciò?».

Queste un paio di battute, in cui molti di noi si riconosceranno, riprese da Born Digital: Understanding the First Generation of Digital Natives, libro di recente uscita negli Stati Uniti. Il progetto prevede anzi utili appendici online dove discutere e ampliare continuamente le tematiche ivi affrontate. Un testo che va a completare il trittico di pubblicazioni rilasciate nel 2008 per il decennale del Berkman Center for Internet & Society (Harvard University), a compimento di altrettanti studi cruciali per comprendere e partecipare al meglio i molteplici aspetti di un pianeta digitale in costante mutamento. Gli altri due volumi sono Access Denied: The Practice and Policy of Global Internet Filtering e The Future of the Internet. And How to Stop It.

L’indagine, la prima di respiro internazionale, dal di dentro e trasversale, è curata da John Palfrey e Urs Gasser, rispettivamente direttore esecutivo e docente associato del Berkman Center. I quali hanno intervistato, in situazioni formali e meno formali, centinaia di giovani di ogni parte del mondo sulle tecnologie maggiormente utilizzate, sul modo di esprimere la propria identità online, su come vedono la privacy e la sicurezza personale, su molteplici dettagli delle loro esperienze digitali quotidiane. Oltre ad aver seguito svariati siti e blog, parlato con esperti e addetti ai lavori, riesaminato la letteratura precedente e scambiato centinaia di email con un ampio giro di collaboratori. Punto cruciale del lavoro, chiarisce l’introduzione, è «porre nella giusta prospettiva elementi positivi e negativi del quadro generale, offrire interpretazioni contestualizzate, suggerendo al contempo quel che ciascuno di noi (genitori, insegnanti, dirigenti, legislatori) può fare per contribuire a questa straordinaria transizione verso una società connessa a livello globale, anziché bloccarne lo sviluppo». Già perché, nonostante l’ampia penetrazione della Rete, restano diffuse e tutt’altro che striscianti le manovre tese a imporre il bavaglio o rendere difficile la vita ai netizen – dall’Italia (dove vigono tuttora i decreti Urbani e Pisanu, e prosegue la discussione del disegno di legge Levi-Prodi) alle palesi censure, galera inclusa, per vari blogger in Egitto, Cina e altri Paesi.

Abbiamo così un osservatorio necessario e privilegiato sulla prima generazione di nativi digitali: ragazzi nati sul finire del decennio 1980-1990, cioè negli anni in cui acquistarono ampia visibilità (quantomeno negli Stati Uniti) Usenet, le Bbs e soprattutto la email, seguite dal debutto del World Wide Web nel 1991 e non molto tempo dopo dall’arrivo dei primi blog. Una sostanziosa fetta di “popolazione” digitale – non “generazione”, come spesso viene definita a torto, visto che complessivamente appena un miliardo di persone ha accesso alle tecnologie digitali, sugli oltre sei miliardi che popolano il pianeta Terra, altro elemento importante questo per dare giusto contesto all’intero scenario. Si tratta cioé di giovani cresciuti fin dalla nascita con e dentro gli ambienti virtuali, e che da poco sono diventati maggiorenni. Ne consegue, ci ricordano gli autori, che presto il mondo intorno a loro, soprattutto quello occidentale, «sarà costruito in base alla loro immagine: l’economia, la politica, la cultura e perfino la struttura della vita famigliare ne verranno trasformate per sempre».

Per un riscontro d’attualità, non è un mistero come la stessa elezione di Barack Obama sia dovuta in parte all’accorto impiego di tali tecnologie, coinvolgendo così come non mai (tanto rispetto all’attivismo online quanto per l’affluenza alle urne) proprio quelle masse giovanili che ne sono target e utenza preferiti. Senza dimenticare l’estrema utilità del servizio attivato all’uopo da Twitter, con rapide battute diffuse senza soluzione di continuità da migliaia di individui di ogni parte del mondo. Oppure i rilanci del tantissimi volontari che danno vita al circuito di Global Voices Online e che nella recente Election Night statunitense hanno prodotto una stimolante chat senza frontiere, fornendo altresì panoramiche più ragionate sulle opinioni dei netizen del mondo riguardo le stesse elezioni.

Citando più volte le potenzialità del giornalismo partecipativo di Global Voices, Born Digital dedica poi un intero capitolo all’attivismo politico, dal ricorso diffuso ai cellulari per organizzare la protesta nelle turbolenze post-elettorali della scorsa primavera in Kenia alla rivoluzione arancione in Ukraina del 2004-2005. Per poi analizzare più a fondo, ovviamente, i recenti trend statunitensi mirati a stimolare la partecipazione civica grazie agli strumenti del Web 2.0, partendo dall’era post 11 settembre e fino alle ultime due tornate presidenziali, ribadendo i primi successi della raccolta-fondi e della mobilitazione online della campagna Obama. E mentre è di norma aderire ai “recinti dorati” delle reti sociali, preoccupandosi ben poco della privacy, un numero crescente di nativi digitali non esita poi a ricorrere ad applicazioni ad hoc quali Taking-ITGlobal, Youth Noise, Zaaz, esterne ma ben innestatate sul popolare Facebook, ad esempio. Cercando di stare attenti a non prendere il dito per la luna che indica, confondendo mezzi e fini.

Fra i vari gruppi di studio illustrati (creativi, pirati, innovatori ecc.), il capitolo “learners” analizza le trasformazioni dell’ultimo decennio nell’ambito dell’apprendimento inteso nel senso più ampio. Partendo con lo sfatare una serie di luoghi comuni: «Notando che i nativi digitali non leggono giornali e riviste, ma assorbono le notizie per l’intera giornata navigando tra vari siti web, molte persone meno giovani ritengono che la loro compresione dei fatti sia superficiale e limitata ai titoloni. Impressione sbagliata, perché sottovalutano la prodondità della conoscenza che i nativi digitali apprendono dal web e l’interazione costruttiva con l’informazione». Importante anche il suggerimento, per le aule scolastiche di ogni ordine e grado, di impiegare non maggior tecnologia bensì di usarla in maniera più efficace e mirata. E così come la televisione non ha stravolto la didattica, lo stesso dicasi per Internet. Purché la si usi come strumento per «collegare sempre meglio la scuola del futuro al mondo esterno, per fare in modo che gli studenti continuino a imparare dentro e fuori dell’aula». Genitori e insegnanti sono sulla linea del fronte, insomma, hanno le maggiori responsabilità e svolgono un ruolo cruciale, insistono Gasser e Palfrey, ma fin troppo spesso non sono per nulla coinvolti nelle decisioni dei giovani. Ergo, è imperativo continuare le sperimentazioni – come accade per fortuna anche in Italia.

Posizioni forse scontate? In parte, almeno per quanti seguono regolarmente queste pagine web. Ma va ricordato che il libro vuole porsi primariamente come guida pratica e intelligente al mondo nuovo del digitale e alla sua complessa popolazione, dove trovano spazio anche i colonizzatori più anziani di primo pelo e le continue frotte di immigrati. Puntando a trovare un equilibrio continuo fra la corsa al gadget o al social network dell’ultima moda e la necessità per ciascuno di noi – legislatori ed educatori, genitori e professionisti – di comprendere il digitale odieno per dar forma al suo futuro. È anzi questo gap partecipativo che gli autori individuano come rischio più cogente e pericoloso: col passare del tempo, il prezzo dell’inazione partecipativa sarà ben maggiore di quanto possiamo immaginare o sostenere come società. E se è vero che non esistono facili risposte alle questioni spesso complesse che i nativi digitali si trovano ad affrontare nelle loro esplorazioni pioneristiche, altrettanto vero è che come collettivo possiamo fare parecchio per rendere positiva la loro (e la nostra) crescita. Basta coinvolgersi e allargare l’area della partecipazione.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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