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Ora in azienda si twitta, però a porte chiuse

14 Maggio 2010

Ora in azienda si twitta, però a porte chiuse

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Laddove prima gli strumenti della nuova comunicazione immigravano illegalmente sul posto di lavoro, ora c’è chi sta cercando di regolarizzarli. È forse un modo per fare le stesse cose, ma in maniera politically correct?

I processi collaborativi hanno spesso fatto irruzione in azienda con lo stesso effetto delle riorganizzazioni. Massimo casino e panico generalizzato (questa l’ho sentita alla radio, chiunque l’abbia scritta ha tutta la mia stima). Per fare “collaboration” o “enterprise ennepuntoqualcosa” ci hanno iniettato sui pc software pesanti come una stella di neutroni per farci fare con la massima complessità le cose più semplici. Lanciando la lean organization e la collaboration devolution sulla base del collaudatissimo principio del rendere difficile il facile attraverso l’inutile.

Sfidare l’It

D’altra parte, davvero si sente il bisogno di un modo più efficiente e più intelligente di lavorare. Di portare in ambito lavorativo tutte quelle tecniche, strumenti, approcci che ci stanno alla base della nostra vita privata. Anzi: che ci permettono, oggi, di avercela una vita privata. Si sente il salto quando passiamo da una vita privata, personale, efficiente a una vita corporate (quindi ben più ricca in termini di risorse economiche, tecnologiche ecc.) dove tutto è più complicato. Una volta si diceva “se lavorassi così sarei licenziato” – e lo dicevamo quando eravamo fuori dal lavoro. Oggi diciamo “se vivessi così come devo lavorare sarei lo scemo del villaggio (globale)”. Non sorprende che un buon numero di avventurosi bucanieri abbiano negli anni sfidato le rigide norme poste dall’It aziendale per installare e usare clandestinamente quelle belle robette agili e snelle che usiamo tutti nella nostra vita privata. Che si facciano le riunioni con Skype, con le chat, ci si organizzi su Facebook, si socializzi con clienti e fornitori su LinkedIn. In barba ai processi, alle procedure, agli schemi corporate.

Era chiaro non potesse durare. Le aziende, a essere onesti, qualche buon motivo di tenere un certo controllo ce l’hanno; non foss’altro per le periodiche epidemie virali che dipendenti in buona fede ma spesso troppo entusiasti scatenano in azienda. E non poteva durare perché era chiaro qualcuno avrebbe visto questa ovvia realtà come un’opportunità di mercato e ci avrebbe fatto un prodotto che potesse piacere alle corporation. E avrebbe visto un modo per fare un business dove prima c’erano strumenti gratuiti. Prendiamone uno a caso, tanto per fare un esempio e per vedere un’anteprima delle cose che verranno (sperando siano tutte più agili e umane dei Moloch che spesso ci è toccato utilizzare).

Prendiamo ad esempio il caso di Salesforce Chatter (ancora in beta), un nuovo ambiente di relazione sociale semichiuso, solo per l’azienda, ma che promette di essere capace di aprirsi al mondo. Dove (come peraltro fatto con tanti strumenti ben più consumer) organizzare gruppi di socializzazione, condivisione, lavoro. Che però si interfaccia (e ci mancherebbe, ormai) con Twitter e Facebook, pur restando solidamente una proprietà privata dell’azienda. Con il valore aggiunto della controllabilità, della “sicurezza”, della privacy. Dell’orientamento a bisogni e desideri non solo del dipendente, ma anche (soprattutto?) del suo capo. E probabilmente anche dell’It. Con questa etichetta di garanzia, portare in azienda modelli e paradigmi altrimenti osteggiati. Avere un profilo e chattare – in ambito chiuso e controllato può diventare non solo tollerato ma anche desiderabile. Twittare aziendalmente può diventare un modo intrigante di provare a rendere più snella l’organizzazione e produttiva alla struttura. Postare verrà visto non come una dispersione di energie e tempo rubate al lavoro, ma come una maniera di auto organizzare i dipendenti e di far circolare l’informazione con meno attriti.

Ristrutturazione continua

Il tutto, naturalmente, mettendo un’altra volta sotto stress quelle fasce più “senior”, meno digital native dell’azienda, che dovranno imparare un’altra volta un nuovo software ma soprattutto un nuovo modello di pensiero del business. Mi dispiace per loro, tutta la mia solidarietà, ma benvenuti nel club. Tutti noi che siamo “dentro” questo mondo, immigrati digitali, questo giochino ce lo siamo dovuti sorbire forse una decina di volte in questi anni, ci piacesse o meno. Ed è questo il nome del gioco. Una continua ristrutturazione, non della azienda ma della nostra testa. Del nostro ruolo, modus operandi, spesso verso forme decisamente più anarchiche di collaborazione e di produzione. Quelle forme che nascono dal cercare di fare il nostro meglio nonostante tutti gli ostacoli che l’azienda ci frappone.

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