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Perché è ora di lavorare a un polo digitale italiano

17 Dicembre 2010

Perché è ora di lavorare a un polo digitale italiano

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La tentazione di centralizzare le operazioni di marketing digitale a livello internazionale è forte. Il rischio per il mondo della comunicazione (e per le aziende) non è trascurabile.

Chi lavora nel mondo della comunicazione sa da anni che è in corso un lento ma inesorabile processo chiamato di “allineamento” o per meglio dire, di centralizzazione. Un tempo tutte le campagne pubblicitarie per grandi marchi erano sviluppate paese per paese, da agenzie locali scelte dal cliente locale o dalla filiale locale da un gruppo internazionale. Con una strategia più o meno allineata internazionalmente, ma con sviluppi creativi basati sulle specificità del pubblico della singola nazione. La cosa aveva un senso strategico perché, una volta, gli italiani erano davvero diversi dai francesi e dagli spagnoli. La cosa non aveva però un senso dal punto di vista economico: tante campagne, tanti contributi alle agenzie locali, tante produzioni parallele.

Comunicazione globalizzata

Poi il pubblico si è allineato sempre più e in fondo non siamo oggi così tanto diversi dai nostri cugini o dai nostri vicini. Specialmente per target giovani, aperti a una cultura che si internazionalizza o si globalizza, c’è una maggiore similitudine con un proprio coetaneo residente in un’altra nazione che con un genitore o uno sconosciuto di un’altra età residente in Italia. Di qui l’idea: fare campagne pubblicitarie centralizzate, dove l’headquarter o l’hub internazionale si occupa di fare una bella campagnona che vale per tutti i paesi, solo da tradurre localmente. Una sola strategia, un solo team che sviluppa il progetto, una sola produzione. Un secco risparmio di costi. Ovvero un taglio alle agenzie locali, che fanno meno, che guadagnano molto meno, che hanno quindi bisogno di meno risorse e quindi non assumono o riducono il personale.

Su internet però il fattore globale è ancora più forte. Sino dal primo momento i navigatori si sono abituati a vivere in ambiti internazionali, su siti e servizi spesso statunitensi o comunque “globali”. Le differenze culturali sulla rete si attenuano: al di là di caratteristiche come gli stili alimentari o certi argomenti locali, in fondo sul web siamo davvero tanto simili. Di fronte a questo allineamento verso un internauta globale, la tentazione dell’allineamento internazionale si sta facendo strada anche sulle operazioni internet, sito, social web, varie ed eventuali. Un bel sitone fatto centralmente, dove azienda locale e agenzia del posto si limitano a tradurre e forse a fare un po’ di manovalanza.

Freno allo sviluppo

Il che significa per le agenzie ancora una volta meno fatturato, meno necessità di persone, meno lavoro, meno spinta al sistema della comunicazione digitale a investire in sviluppo, in ricerca, nella formazione di una classe di digerati che possa imparare e farsi esperienza. Insomma, mettendo un altro bel freno a mano allo sviluppo di un’internet made in Italy. Per le aziende questo significa perdere in larga parte o del tutto il controllo sulle operazioni digitali, ritrovandosi con progetti già fatti dal “centro” che volenti o nolenti si devono sorbire e che devono pagare, meno che un progetto locale, magari, ma pagare comunque. Spesso per progetti che non convincono ma che vanno ingoiati nel nome del beneficio comune (visto anche il ruolo in fondo secondario che questa nostra stanca nazione sta progressivamente assumendo nello scenario globale).

Dato che in Italia normalmente sulle operazioni digitali tendiamo a volare basso, a investire poco e in modo molto conservativo, nazioni più evolute hanno il gioco facile nel sostenere l’opportunità di toglierci le decisioni e la creatività per affidarle a strutture e persone “più in gamba” che hanno avuto l’occasione di dimostrare quanto valgono. Mancano in fondo da noi realtà potenti, internazionalmente riconosciute come poli di eccellenza a livello internazionale: si possono contare le agenzie di prestigio sulle dita di una mano o poco più. Lo scenario non è roseo. Facile arrivare alla conclusione che per una grande marca un sito o due possono bastare per tutto il mondo. Che un’operazione sui social media in fondo può essere fatta al centro e declinata (un minimo) paese per paese. Che non c’è bisogno di pagare delle teste in periferia: laggiù bastano quattro mani e un contatto con un cliente, entrambi esautorati nelle loro competenze e skill.

Eccezioni

Eccezioni virtuose non mancano (ci sono aziende che hanno in Italia delle best practice che esportano). Talenti e competenze ci sono, la capacità di fare cose che stupiscano il mondo e settino degli standard le abbiamo, conosco persone che non hanno nulla da invidiare ai blasonati colleghi digitali di oltre manica, oltre oceano oltre quello che vi pare. Solo uno sforzo congiunto di un sistema fatto da aziende e agenzie, delle persone che nelle aziende e agenzie operano potrebbe portare a un livello più alto, a un sistema di soldi che girano e che favoriscono un circolo virtuoso. L’opportunità è quella di un momento economico duro, ma dove molti soldi stano approdando o lo faranno presto sul digitale, in un contesto in cui le aziende stanno iniziando a vedere che il digitale non è più un optional ma spesso la chiave per sviluppare il business, lo strumento di comunicazione più importante per target sempre più ampi.

Su questi budget gli appetiti, è inutile negarlo, sono forti da parte degli headquarter di molte agenzie e molte aziende, che cercano di portare a casa – sifonandoli dalla periferia – budget che fanno comodo alla bottom line. Per le aziende, nella ricerca di consolidare risparmi per permettersi più aggressive politiche di prezzo o semplicemente aumentare gli utili. Un certo livello di centralizzazione è inevitabile e anzi ha senso. Ma è cosa diversa da una colonizzazione che prende il valore e lascia giù le briciole. La domanda, come sempre, è se saremo capaci di fare sistema, di vedere le cose in prospettiva strategica. O se ci accontenteremo di battagliare per budget sempre più piccoli, su progetti sempre meno interessanti, accettando progetti che ci vengono dall’estero che non sono ciò che ci serve ma hanno il vantaggio di costare poco.

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