Steven Holtzman
Digital Mosaics:
the Aesthetics of Cyberspace
(Simon & Schuster, New York, 1997, pg. 205, $ 25)
Uscito la scorsa estate in hardcover e alcune settimane addietro in paperback (con copertina rivisitata), quest’agile volume di Steven Holtzman si propone fin dall’introduzione come una “caleidoscopica esplorazione della nuova cultura,” per riprendere le parole d’elogio di Louis Rossetto, ex-boss di Wired, riportate nel retro-copertina. E non potrebbe essere altrimenti, vista l’esperienza diretta dell’autore –musicista (ha lavorato tra gli altri con Philip Glass), scrittore (nel ’94 aveva pubblicato “Digital Mantras”, collaboratore con varie testate e programmi radiofonici), dirigente di alcune aziende high-tech della Bay Area (Perspecta, Liquid Audio), oltre che naturalmente attento praticante del nuovo medium digitale a diversi livelli.
Più in particolare, il libro promette di scandagliare le possibilità artistiche dell’espressività digitale in fieri, portandoci a contatto con i lavori sperimentali di alcuni artisti e designer, tra cui Michael James e i suoi camaleonti frattali, Mark Podlaseck con nuove sonorità interattive, Karl Sims alle prese con la creazione di piante artificiali. Mai mancando, comunque, di sottilineare le enormi potenzialità in tale ambito del mondo “immateriale”.
“Proprio perchè il digitale è un medium così radicalmente diverso, avrà influssi non soltanto sul modo in cui comunichiamo ma anche sul nostro modo di pensare e di creare.” È su tali basi che Holtzman si lancia nella disamina delle qualità assolutamente uniche dell’esperienza online, diretta filiazione del digitale: opere d’arte infinitamente riproducibili e sempre perfette, ma tuttavia ancora effimere; comunicazione interattiva, mai passiva, con spazi del tutto nuovi per individui e community; piena e garantita non-linearità espressiva, assai simile sia “mosaic media” già descritti da Marshall McLuhan all’alba degli anni ’60 sia alle funzioni cerebrali più tipiche degli esseri umani.
Da qui il saggio trae diverse riflessioni per definire una possibile estetica del cyberspazio — compito non da poco, visto che attualmente ci troviamo lungi dal comprenderne la portata e assai indaffarati con evidenti limiti tecnologici (lo ammette più volte lo stesso autore). Ed è qui soprattutto che Holtzman pare farsi fin troppo prudente, riproponendo verità tanto “sacre” quanto scontate (“il computer non prenderà il posto di libri, teatro, film”) oppure passaggi ad effetto che lasciano il tempo che trovano. Tipico esempio l’epilogo, dove viene riportata nei dettagli la descrizione della nota cerimonia del tè giapponese, stato mentale d’infinita attenzione ai dettagli, per poi concludere che “…come in un mosaico, la struttura delle relazioni tra ogni parte del tutto emana un’integrità che è l’essenza stessa dei nuovi mondi digitali…[i quali] riflettono uno stato mentale mai sperimentato prima.”
Parimenti fumosi e ristretti gli argomenti portati contro certe critiche tecno-fobiche di autori quali Steven Bikerts (“The Gutenberg Elegies”) e
Clifford Stoll (“Silicon Snake Oil”). Entrambi, insieme a un entusiasta critico del New York Times Books Review, vengono liquidati in quanto “…membri di un’eredità culturale agonizzante che — al pari di ogni cambio generazionale — non si trova a proprio agio con il nuovo.” Certo, è vero che costoro e altri neo-Ludditi spesso non riescono ad andare oltre il tentativo di farci ripiombare nella concezione romantica del passato, statico e immutabile. Ma è altrettanto vero che esistono critici ben più seri dell’high-tech rampante e imperante, inclusi i diversi propugnatori del Techno-realism e perfino quell’Howard Rheingold variamente citato da Holtzman come profeta del virtuale comunitario.
Al riguardo, pare anzi che “Digital Mosaics” penda eccessivamente (e, in fondo, logicamente) dalla parte dei digerati di Silicon Valley, strizzando l’occhiolino alla ricca crema delle top aziende locali variamente impegnate a tirare la volata iper-digitale.
Ed è un peccato che il saggio non riesca a decollare, a convincere, perché non mancano le buone intuizioni: dai suddetti esempi di attività artistico-digitale alla decisa volontà di avventurarsi nei nuovi territori che il computer va aprendo per l’espressività umana. Una sorta di nuovo espressionismo è alle porte, ci assicura l’autore, carico di chiari riferimenti alle opere pittoriche di Edward Munch o alle composizioni atonali di Arnold Schoenberg d’inizio ‘900. È quindi importante avvicinarvisi senza preconcetti, pronti ad afferrare il nuovo in arrivo, per meglio definire l’estetica del cyberspazio, e insieme i modelli ispirativi, gli strumenti più adatti, gli obiettivi da perseguire.
Soltanto che questo “Digital Mosaics”, seconda uscita letterario-filosofica di Steven Holtzman lungo tale tentativo di definizione, va poco oltre i blocchi di partenza privilegiando anzichè no una visione troppo USA-centrica, trascurando le implicazioni socio-culturali della “rivoluzione” digitale e lasciando troppo in sospeso diverse questioni-chiave. Forse a garantirsi spazio e argomenti per un prossimo libro?