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Siamo sociali, metti pure il naso nel portafoglio

30 Aprile 2010

Siamo sociali, metti pure il naso nel portafoglio

di

Blippy, il nuovo microblogging che permette di far sapere al mondo dove buttiamo i nostri soldi. Ma perché Blippy no e aNobii si?

La barra della privacy su Internet si sta abbassando. E i primi colpevoli siamo noi, lo sappiamo, che disseminiamo i nostri dati i giro. È solo una questione di sbadataggine? No, assolutamente no. A quanto pare, l’internauta medio (che ovviamente non esiste, è solo una figura retorica) adora far saper al mondo i fattacci suoi. Già poteva essere discutibile compilare il campo relativo al proprio status sentimentale – e quando vedi uno che mette “it’s complicated” è quasi impossibile non farsi una cofana di fatti suoi. Adesso però si è arrivati veramente al sancta sanctorum, al luogo più sacro e riservato della nostra civiltà dei consumi.

Il naso nel portafoglio

L’avrete già capito, stiamo parlando di Blippy, forse il più controversial dei social-cosi apparsi ultimamente. Lanciato nel dicembre 2009, l’idea di Blippy è una piattaforma di microblogging semplice ma allo stesso tempo terrificante: far sapere al mondo quanto spendiamo, quando, presso che vendor e per cosa. Possiamo manualmente postare la ferale notizia che abbiamo speso 400 euro in un paio di scarpe (o, per i più arditi, in merci più borderline). Ma soprattutto possiamo attivare un meccanismo automatico che ripubblica la nostra spesa effettuata su Amazon, eBay, Netflix, iTunes e così via, senza nemmeno doverci scomodare. Facendo vedere, in tutta il suo magnificente splendore, l’oggetto di cui ci siamo impossessati per ricevere complimenti o critiche dai nostri peer. O per scoprire che un carneade qualsiasi «ha speso 11.20$ da Amazon per comprare una zuppa vegana di fagioli neri e lime (confezione da 6)». Dopo un periodo di beta test a inviti, la piattaforma è stata aperta al pubblico, e orde di internauti ferocemente disposti a condividere il loro conto economico potranno ora informarci sui loro personali pattern di consumo.

Questa predisposizione è ovviamente da ricerca sociologica e alza la palla a una serie assolutamente prevedibile e scontata di interventi da parte delle frazioni “benpensanti” dei media. Non ci sono più le stagioni di una volta, quelli su Internet sono tutti matti… come al solito la differenza, la devianza dagli standard abituali stupisce e in fondo fa un po’ paura. Fenomeno che potrete constatare benissimo ad esempio quando parlate in società di Farmville: i commenti usuali (tolti quelli dei giocatori che immediatamente si addentrano in consigli tecnici con un gergo iniziatico/massonico incomprensibile ai non affiliati) sono tutti nell’area “la gente non sa più cosa fare”, “eh, beati loro che fanno finta di lavorare e invece giocano”, “bisogna essere scemi”. Rifiutandosi totalmente di cogliere dei segnali curiosi, di farsi delle domande, di farsi sorgere il dubbio che se il gioco ha un successo così grande ci potrebbe essere sotto qualcosa su merita interrogarsi. Ma si sa, l’analisi è faticosa, la critica costruttiva è impegnativa, si fa molto prima ed è molto più rassicurante schierarsi dalla parte di quelli per bene e con la testa sana e sentenziare che questi quasi 24 milioni di utenti sono tutti degli imbecilli e dei poco di buono (io lo sono e gioco su Farmville, ma non faccio ovviamente testo).

Il modellino possibile

Quindi accodiamoci, e definiamo gli utenti di Blippy dei drogati da shopping, degli esibizionisti digitali o semplicemente dei rimbecilliti. Tanto scemi però quelli che hanno messo in piedi Blippy non devono essere, perché sotto c’è un teorico modello di business da non disprezzare. Ad esempio, vendere profili, nominativi, associati ai propri consumi. Un concorrente di Amazon potrebbe comprare volentieri i nomi dei principali clienti della libreria online, per cercare di portarli dalla propria parte, sfilando così dei clienti alto spendenti al competitor – ed una simile anagrafica non è proprio facile da ottenere (specialmente basandosi su atti di acquisto reali, e non su dichiarazioni d’intenti), in un sistema dove comunque i sistemi di difesa della privacy esistono. Sempre che non siamo noi i primi a dare in giro anche il numero del nostro bancomat o i codici della cassaforte.

E se una certa parte della società si è dimostrata critica nei confronti di Blippy, le società che invece cacciano i soldi per far crescere business ritenuti ad alto potenziale (tipo Sequoia Capital, per intenderci) sembrano aver dato una certa fiducia all’impresa, che ha appena chiuso un giro di finanziamenti di 1,6 milioni di dollari – non tanti, ma probabilmente più che sufficienti per proseguire nell’attività, stringere accordi di marketing con gli operatori di e-commerce, andare a vendere servizi potenzialmente molto interessanti ai potenziali interessati. D’altra parte, nella fase di sperimentazione, Blippy ha cooptato 5.000 persone, che hanno condiviso coi loro amici informazioni su 100.000 acquisti per oltre 4,5 milioni di dollari: un campione sociodemografico di carotaggio consumazionale che fa brillare gli occhi e prudere le dita a più di un operatore dell’ecommerce votato alla massimizzazione dei propri utili. Volendo, poi, possiamo trovare anche un senso di utilità per i consumatori, che possono scoprire prodotti nuovi acquistati dai propri pari, fare comparazioni di prezzo o organizzare puntate di social shopping. Ma ho come il dubbio che non sia proprio questa la molla che li spinge.

La cultura, allora?

Resta, è vero, ancora da capire quali siano le molle psicologiche e sociali che ci spingono ad essere così trasparenti e “pubblici”. Ma questo è un tema complesso, che confesso di non essere all’altezza di trattare, anche se ho le mie teorie su esibizionisti ed anestetizzati online. Qualche pensiero comunque mi viene. Perché tante critiche se decidiamo di condividere acquisti di calzini quando invece molti trovano assolutamente saggio e positivo condividere su Anobii le proprie acquisizioni librarie (in fondo i libri si presume che li compriamo, no)? Non c’è qualcosa di più profondo che sdogana tutto ciò che è ammantato di cultura? E una forma di rigetto di fronte allo spintissimo consumismo che sembra essere diventata l’ultima religione occidentale in buona salute, al punto che tutto ciò che puzza di consumismo e non di miglioramento umano ci fa reagire violentemente? Se la verità è quest’ultima, ditemi dove firmare, che mi associo subito. Qualche punto di vista interessante su Il Nichilista, il Corriere della Sera e il blog del New York Times.

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