Il mistero dell’elusivo Planet 9
Per dirla con le sagge parole di Douglas Adams: non fatevi prendere dal panico!. Quando dico alla gente che il mio desiderio più grande è che il Sistema Solare abbia un suo buco nero, mi guardano con repulsione e orrore. Ma, come abbiamo appreso in precedenza, non dobbiamo immaginare un buco nero come un violento aspirapolvere. Nel Sistema Solare il suo ruolo sarebbe piuttosto quello di un pastore gravitazionale e averne uno nel nostro sistema planetario non sarebbe una cosa negativa: sarebbe fantastico. Purtroppo non ci sono ancora notizie confermate (o avvistamenti) di un buco nero nel Sistema Solare. Il più vicino alla Terra è V616 Monocerotis, che potrebbe sembrare una specie di malattia, ma in realtà è un oggetto cosmico 6,6 volte più massiccio del Sole, schiacciato in uno spazio un po’ più piccolo del pianeta Nettuno. È abbastanza vicino a noi, trovandosi a 3.000 anni luce di distanza (circa 28 milioni di miliardi di chilometri), ma molto più lontano della stella più vicina al Sole, che dista solo 4 anni luce. Quindi, nel grande schema delle cose, è astronomicamente vicino, ma non certo quanto quello che considereremmo un giretto per negozi.
Fortunatamente, V616 Monocerotis è felicemente in orbita attorno a un’altra stella, abbastanza simile al nostro Sole, da cui il buco nero sta lentamente rubando materiale, che finisce in un disco di accrescimento che ogni tanto emette un bagliore di raggi X, giusto per farci sapere che si trova lì. A parte questo, non ha nulla di particolarmente notevole, se non la sua vicinanza alla Terra.
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L’aspetto che lo rende davvero speciale per l’umanità non è tanto il fatto di aver rilevato la luce proveniente dalla materia che gli gira intorno a spirale, ma di aver anche inviato un segnale luminoso verso di esso. Il 15 giugno 2018, tre mesi dopo la morte dell’astrofisico britannico Stephen Hawking, che aveva dedicato la sua vita alla comprensione della matematica dei buchi neri, l’Agenzia spaziale europea inviò una trasmissione in direzione di V616 Monocerotis in suo onore. Arriverà nell’anno 5475 e sarà la prima comunicazione umana con un buco nero. V616 Monocerotis è però solo il buco nero più vicino conosciuto. E se non fosse davvero il più vicino in assoluto? Potrebbe essercene un altro, magari una coppia di buchi neri che orbitano l’uno attorno all’altro, come il sistema da cui LIGO ha rilevato le onde gravitazionali, ma che non hanno materiale intorno a loro da surriscaldare, per segnalarci con un getto di raggi X la loro presenza. O magari uno che si nasconde in bella vista nel nostro stesso Sistema Solare?
Grande come una palla da tennis
L’idea non è così folle come può sembrare a prima vista. Ci sono dei buoni motivi per ipotizzare che potrebbe esserci un buco nero delle dimensioni di una palla da tennis che si aggira ai margini del Sistema Solare, ben oltre l’orbita di Plutone, e che sta facendo casino.
All’inizio, la motivazione era dettata dal fatto che gli astronomi si erano accorti che le orbite di Urano e Nettuno sono un po’ strane. Così strane che, in seguito alla scoperta di Nettuno nel 1859, dopo che Le Verrier aveva notoriamente previsto dove si sarebbe trovato, si iniziò subito a cercare un altro pianeta (il Pianeta 9) al di là di Nettuno, che avrebbe potuto disturbare le orbite di Urano e di Nettuno stesso, attirandoli verso di sé per gravità e rendendo le loro orbite molto più ellittiche di quelle degli altri pianeti del Sistema Solare.
L’inafferrabile Pianeta 9 venne finalmente individuato nel 1930, quando, a soli ventiquattro anni, l’astronomo americano Clyde Tombaugh scoprì Plutone. Tombaugh aveva raccolto il testimone della ricerca di Plutone dal collega astronomo americano Percival Lowell. Lowell era nato nell’élite di Boston e aveva studiato all’Università di Harvard. Dopo la laurea gestì un cotonificio in città per sei anni e poi, durante il decennio successivo, decise di viaggiare in lungo e in largo per l’Asia. Quando finalmente tornò negli Stati Uniti, alla fine del XIX secolo, decise di intraprendere la carriera di astronomo. Non lo fece come lo faremmo noi, ovvero facendo domanda per un lavoro, ma usò le ricchezze ereditate e guadagnate per fondare un osservatorio nuovo di zecca: il Lowell Observatory, appena fuori Flagstaff, in Arizona, USA. Lowell scelse quel luogo specificamente per la sua elevata altitudine e la distanza dalle luci della città: le migliori condizioni possibili per l’astronomia. Fu la prima volta che la sede di un osservatorio veniva scelta in questo modo, piuttosto che per la comodità e convenienza economica del luogo. Oggi è così che vengono scelte le sedi di tutti gli osservatori professionali, badando cioè alla distanza dalle aree popolate, all’altitudine e al clima secco. Si pensi a Mauna Kea, nelle Hawaii, al deserto dell’Atacama, in Cile, o al Warrumbungle National Park, in Australia.
All’inizio, Plutone e donne ricercatrici
Fu a Flagstaff, nel 1906, che Lowell iniziò una ricerca dedicata al Pianeta 9, o Pianeta X, come lo chiamava lui. Esattamente come all’Osservatorio dell’Harvard College, dove si occupavano di classificare le stelle, anche Lowell assunse un team di calcolatrici donne per svolgere la noiosa ricerca sulle lastre fotografiche. Quel team era guidato da Elizabeth Langdon Williams. Williams si era appena laureata con lode al MIT, nel 1903, in fisica, diventando una delle prime donne in assoluto a farlo. Inizialmente fu assunta da Lowell, nel 1905, per curare le sue pubblicazioni scientifiche, ma poi le venne chiesto di guidare il team di calcolatrici dell’osservatorio. Lowell aveva dato a Williams un’idea approssimativa di dove pensava si trovasse Plutone (in orbita sullo stesso piano di Urano, a circa quarantasette volte la distanza Terra-Sole). A lei fu lasciato il compito di calcolare le possibili orbite del Pianeta 9 e di consigliare in quali regioni del cielo cercare.
Lowell osservava poi quelle aree del cielo con il telescopio dell’osservatorio, confrontando le immagini più recenti con quelle scattate in precedenza, per vedere se qualcosa si fosse mosso davanti alle stelle di sfondo (secondo le definizioni odierne, Williams si occupava di astrofisica e Lowell di astronomia). Continuò fino alla sua morte, avvenuta nel 1916, ma non trovò mai ciò che stava cercando. Anche se, con il senno di poi, oggi sappiamo che l’Osservatorio Lowell aveva in realtà catturato due immagini molto deboli di Plutone, nel 1915, ma non furono notate durante la ricerca.
Dopo la morte di Lowell, la ricerca si fermò per oltre un decennio: in quel periodo Williams sposò un astronomo britannico che lavorava all’osservatorio, George Hall Hamilton, e fu prontamente licenziata dalla sua posizione di calcolatrice capo, poiché per la mentalità del tempo non era appropriato assumere una donna sposata. Così, quando finalmente la ricerca riprese, nel 1929, fu il neoassunto Clyde Tombaugh a prendere il comando. Tombaugh aveva impressionato il direttore dell’osservatorio, Vesto Melvin Slipher, con i suoi disegni scientifici di Marte e Giove, che aveva realizzato con un telescopio costruito e testato personalmente nella fattoria di famiglia, in Kansas.
La bambina che diede il nome a Planet 9
A Tombaugh fu affidato il compito, piuttosto noioso, di cercare il Pianeta 9, illuminando avanti e indietro coppie di fotografie di regioni del cielo notturno scattate a distanza di una settimana l’una dall’altra. Dopo un anno di ricerche, nel gennaio 1930 trovò finalmente un oggetto sconosciuto che si era mosso rispetto alle immagini scattate poche settimane prima. Successive osservazioni confermarono che l’oggetto era reale e continuava a muoversi nella stessa direzione. La scoperta fu finalmente annunciata al mondo nel marzo del 1930 e fece notizia in tutto il globo. La domanda sulla bocca di tutti era come chiamare il nuovo pianeta del Sistema Solare. L’Osservatorio Lowell aveva il diritto di dargli un nome e ricevette oltre 1.000 suggerimenti, per posta, da appassionati di astronomia di tutto il mondo. Constance Lowell, la vedova di Percival, che aveva assunto la gestione della proprietà, suggerì Zeus (dal nome del dio greco), ma anche il nome di suo marito: Percival o Lowell. Tutte le proposte ricevute furono scartate da Slipher e Tombaugh (compreso Zeus, dato che tutti gli altri pianeti del sistema solare avevano nomi romani, non greci. Fra l’altro il nome Giove, l’equivalente romano di Zeus, era già stato utilizzato).
Plutone è il dio romano degli Inferi e, a detta di Clyde Tombaugh, il nome era stato proposto da una bambina di undici anni, di Oxford: Venetia Burney. Ma non si trattava di una undicenne qualunque: era la nipote di un bibliotecario in pensione, della Bodleian Library dell’Università di Oxford, Falconer Madan. Madan aveva amici altolocati a cui poteva riferire il suggerimento, in particolare il professore di astronomia e direttore dell’Osservatorio Radcliffe dell’Università di Oxford, Herbert Hall Turner. Turner inviò quindi un telegramma ai colleghi dell’Osservatorio Lowell, che lo inserirono in una rosa di nomi potenziali (tra cui Minerva e Cronus). Il 24 marzo 1930 si tenne una votazione, che risultò unanime, da parte del personale dell’osservatorio. Il Pianeta X di Lowell fu ufficialmente chiamato Plutone.
Alla fine, Plutone era stato trovato a soli sei gradi di distanza da dove Lowell (con Williams che aveva fatto i calcoli) aveva previsto che si sarebbe trovato. All’inizio, quindi, i fisici erano sicuri che Plutone fosse il responsabile delle stranezze delle orbite di Urano e Nettuno. La sua massa era stata stimata in base alla grandezza che avrebbe dovuto avere per influenzarli: sette volte più massiccia della Terra. Ma a causa della bassa intensità luminosa con cui appariva Plutone (se fosse stato più grande avrebbe riflesso più luce e sarebbe risultato più luminoso) quella massa fu messa in dubbio. Nel 1931, la stima era stata rivista al ribasso e si era attestata tra 0,5 e 1,5 volte la massa della Terra, per poi continuare a scendere nel corso del XX secolo. L’astronomo olandese Gerard Kuiper stimò, nel 1948, che avesse solo il 10 percento della massa della Terra, ma si trattava ancora di una stima eccessiva.
Duemila oggetti ghiacciati
Nel 1978 fu scoperta la luna di Plutone, Caronte, dagli astronomi Robert Harrington e Jim Christy, che lavoravano all’Osservatorio Navale degli Stati Uniti. Partendo dall’orbita di Caronte riuscirono a capire che la massa di Plutone era pari a un misero 0,15 percento di quella terrestre (in realtà si tratta di una cifra un po’ troppo bassa: le stime moderne la collocano intorno allo 0,22% della massa terrestre). Si trattava di un valore insufficiente per giustificare le stranezze dell’orbita di Urano e ciò stimolò ancora una volta la ricerca di un pianeta oltre Plutone.
Queste ricerche furono interrotte dopo i risultati del flyby del Voyager 2 su Urano, nel 1986 e su Nettuno, nel 1989. Finora è stata l’unica navicella ad aver visitato entrambi i pianeti, fornendo agli astronomi una stima più accurata delle loro orbite e delle loro masse. Tenendo conto di tutte queste nuove misurazioni, la presunta stranezza delle orbite di entrambi i giganti ghiacciati scomparve, insieme alla necessarietà dell’esistenza stessa del Pianeta X di Lowell. Il fatto che le previsioni di Lowell coincisero con l’area del cielo in cui Tombaugh scoprì Plutone è considerato una felice coincidenza.
Nel resto del XX secolo, invece, vennero scoperti molti altri piccoli oggetti al di là dell’orbita di Nettuno, in un’area oggi nota come fascia di Kuiper, dal nome di Gerard Kuiper. La fascia di Kuiper è una sorta di cintura di asteroidi, molto più grande (circa venti volte più ampia) e più massiccia (fino a 200 volte più massa) della fascia di asteroidi presente fra Marte e Giove. La ricerca fu avviata dall’astronomo britannico-americano David Jewitt e dall’astronoma vietnamita-americana Jane Luu. I due ricercatori scoprirono i primi due oggetti della fascia di Kuiper, dopo Plutone, all’inizio degli anni 1990: i corpi celesti 1992 QB1 e 1993 FW. Attualmente sono noti oltre 2.000 oggetti ghiacciati della fascia di Kuiper, ma si pensa che ve ne siano più di centomila nelle zone più lontane del Sistema Solare.
Un pianeta o no…?
Nel 2005, tre astronomi americani, Mike Brown, Chad Trujillo e David Rabinowitz, che lavoravano presso l’Osservatorio Palomar di San Diego, in California, annunciarono la scoperta di un nuovo oggetto nella fascia di Kuiper. Inizialmente venne chiamato 2003 UB313, ma alla fine fu ribattezzato Eris, dal nome della dea greca dell’odio e della discordia. Come per Plutone, esistono immagini di Eris precedenti alla scoperta, che risalgono al 1954. La luna di Eris fu scoperta pochi mesi dopo, permettendo a Brown di calcolare che Eris è il 27 percento più massiccio di Plutone. Si tratta quindi dell’oggetto più massiccio scoperto nel Sistema Solare dopo Tritone, la luna di Nettuno, individuato nel 1846.
La stampa mondiale lo soprannominò il decimo pianeta, ma nei circoli astronomici la questione fu incredibilmente controversa. Alcuni membri della comunità ritenevano che la scoperta di Eris, insieme ad altri oggetti della fascia di Kuiper individuati nello stesso periodo, come Makemake e Haumea, fossero la migliore argomentazione a favore dell’esistenza di soli otto pianeti definibili tali, nel Sistema Solare, altrimenti se ne sarebbero avuti più di cinquantatré. Alcuni astronomi cominciarono a sostenere che Plutone avrebbe dovuto essere riclassificato, ma temevano la reazione del pubblico. Quando, nel 2000, il Planetario Hayden di New York espose un modello del Sistema Solare con solo otto pianeti, lasciando Plutone fuori dal modello, la notizia si diffuse in tutto il mondo generando un’enorme quantità di lamentele da parte dei fan di Plutone.
La situazione si sbloccò nel 2006, quando in una riunione dell’Unione Astronomica Internazionale fu decisa, con una votazione, la definizione ufficiale di pianeta del Sistema Solare. Un comitato aveva proposto una definizione e i membri della riunione poterono votarla, in una sessione presieduta da Jocelyn Bell Burnell (colei che aveva scoperto la prima pulsar). La proposta venne approvata e ora sono tre i criteri necessari per classificare un oggetto del Sistema Solare come pianeta:
- deve essere in orbita intorno al Sole;
- deve aver raggiunto l’equilibrio idrostatico (deve avere una massa sufficiente per cui la gravità lo ha arrotondato, da un asteroide bitorzoluto a forma di patata a qualcosa di quasi sferico);
- deve aver liberato l’area circostante la sua orbita dagli asteroidi.
È il terzo di questi criteri che Plutone non rispetta, insieme a tutti gli altri oggetti della fascia di Kuiper, in quanto abitano tutti la stessa zona del Sistema Solare. Sono classificati come pianeti nani, insieme a pochi altri oggetti del Sistema Solare, come Cerere nella fascia degli asteroidi. Si può comunque dire che il mondo reagì bene alla decisione.
Non credo che Internet sia ancora tranquillo riguardo a questa retrocessione: ogni volta che ne parlo si scatena l’indignazione più assoluta. Anche se mi piace far notare a tutti i fan di Plutone che ora lo si può almeno considerare il re dei nani, come nella saga Il signore degli anelli.
Lo studio di questi nuovi pianeti nani alla fine degli anni 2000 portò alla luce altre peculiarità orbitali che non potevano essere spiegate. Per esempio, il pianeta nano Sedna ha un’orbita particolare: a differenza degli altri oggetti transnettuniani della fascia di Kuiper (o TNO), Sedna non incrocia mai l’orbita di Nettuno. Dato che le orbite sono ellittiche, nel caso di Sedna si può dire che il suo punto più vicino al Sole è più lontano del punto più lontano di Nettuno dal Sole. Cosa che non vale per Plutone ed Eris, che si avvicinano al Sole più del punto più lontano di Nettuno. Questi due pianeti nani probabilmente sono stati trasportati lì dalla gravità di Nettuno, durante la formazione del Sistema Solare. Sedna viaggia tre volte più distante di Nettuno, su un’orbita altamente ellittica, il cui periodo supera gli 11.000 anni terrestri. Come ha fatto Sedna a raggiungere un’orbita così strana e lontana? Una possibilità è che si tratti di un oggetto che vagava nello spazio interstellare e che sia stato catturato dal Sole. Un’altra possibilità è che sia stato trascinato lì da un’interazione del Sole con una stella di passaggio o, l’opzione più eccitante, da un altro pianeta massiccio ai margini del Sistema Solare.
La brutta fine di Plutone
È quest’ultima l’idea preferita dalla persona che scoprì Sedna: l’astronomo americano Mike Brown. Egli scoprì anche Eris, cosa che causò la retrocessione di Plutone e gli valse il soprannome di Pluto killer (assassino di Plutone). Dopo la scoperta, negli anni 2010, di altri sei oggetti estremamente distanti, aventi orbite simili a Sedna, Brown e il suo collega del Caltech Konstantin Batygin (un astronomo russo-americano) indagarono ulteriormente. Essi scoprirono che non solo questi oggetti avevano distanze dal Sole fra loro simili, ma anche che orbitavano tutti sullo stesso piano, come se fossero stati trasportati lì da un oggetto presente ai confini del Sistema Solare. Brown e Batygin calcolarono che la spiegazione più probabile era la presenza di un pianeta da cinque a quindici volte più massiccio della Terra, che orbitava ai confini del Sistema Solare.
Nel giro di una notte, Brown e Batygin diedero il via alla ricerca di un altro Pianeta 9 del Sistema Solare; ma, come dice Carl Sagan, le affermazioni straordinarie richiedono delle prove straordinarie. Il Pianeta 9 rimane ancora un pianeta ipotetico e, nonostante le numerose ricerche, per il momento non è stato trovato nulla. Una di queste ricerche è stata effettuata dai volontari della piattaforma online Zooniverse. Analogamente a come Tombaugh aveva trovato Plutone, ai volontari sono state mostrate due immagini a infrarossi, della missione Wide-field Infrared Survey Explorer (WISE) della NASA, che lampeggiavano avanti e indietro in modo che potessero individuare se si era mosso qualcosa. Sebbene il progetto non trovò il Pianeta 9, portò alla scoperta di 131 stelle nane brune al di là del Sistema Solare ed escluse un’enorme area di cielo per le future ricerche del Pianeta 9.
Ciò che rende così difficile la ricerca del Pianeta 9 è che, se esiste, si stima che orbiti a una distanza pari a oltre 500 volte la distanza Terra-Sole. Significa che impiegherebbe un tempo incredibilmente lungo per completare un’orbita attorno al Sole e quindi non ci si aspetta che si muova molto nel cielo, rispetto ai tempi umani. Il “Pianeta 9” rimane quindi ipotetico e sfuggente, e le orbite degli oggetti simili a Sedna non spiegate.
Buchi neri primordiali
Nel 2020, Jakub Scholtz e James Unwin pubblicarono un documento che mette in correlazione non solo questo fenomeno inspiegabile, ma anche un altro che, a prima vista, sembrerebbe completamente scollegato. L’Optical Gravitational Lensing Experiment (OGLE), gestito dall’Università di Varsavia, utilizza un telescopio nel deserto dell’Atacama, in Cile, per individuare eventuali variazioni di luminosità nel cielo. Può trattarsi di qualsiasi cosa, dalle stelle pulsanti alle supernove, o di un fenomeno chiamato microlensing. Avviene quando un oggetto compatto, come una stella di neutroni o un buco nero, passa davanti a una stella presente sullo sfondo. La luce di quest’ultima viene deflessa mentre viaggia nello spazio curvato attorno all’oggetto compatto: esso agisce come una lente che aumenta brevemente la luminosità della stella sullo sfondo. In base alla variazione di luminosità e alla durata di tale variazione, è possibile calcolare, ancora una volta sfruttando le equazioni della relatività generale di Einstein, quanto è massiccio l’oggetto compatto che fa da lente.
Un racconto cosmico, che risponde a domande importanti sul nostro universo e ne descrive i misteri nascosti all’interno dei buchi neri.
L’indagine OGLE è in corso dal 1992 e in questo arco di tempo ha individuato molte lenti gravitazionali causate da buchi neri presenti nella Via Lattea, tutti formatisi dopo che una stella è passata per la fase di supernova, superando il limite di Tolman-Openheimer-Volkoff, pari a circa tre volte la massa del Sole. Ma il team di OGLE ha anche riferito di aver osservato sei eventi di micro-lensing ultrabrevi in direzione del centro della Via Lattea, che dovevano essere stati causati da oggetti di massa appena 0,5-20 volte superiore a quella della Terra.
Una massa così relativamente piccola significava che si trattava di pianeti vaganti, espulsi dal sistema stellare in cui si erano formati, oppure di buchi neri primordiali. Un buco nero primordiale è un tipo ipotetico di buco nero, che si pensa si sia formato agli albori dell’universo, quando quest’ultimo era molto più denso.
Non proprio “Planet” 9
Teoricamente, se in quel periodo si fosse raggruppata una quantità sufficiente di materia, si sarebbe potuto formare un piccolo buco nero, un’idea sviluppata da Stephen Hawking già negli anni ’70.
Ciò che Scholtz e Unwin sottolinearono nel loro articolo, intitolato What if Planet 9 is a Primordial Black Hole? (E se il Pianeta 9 fosse un buco nero primordiale?), è che i due intervalli di massa previsti da Brown e Batygin per il Pianeta 9 (5-15 volte la massa terrestre) e quelli osservati dal team di OGLE (0,5-20 volte la massa terrestre) sono notevolmente simili fra loro e uno potrebbe aiutare a spiegare l’altro. Forse il Pianeta 9 fa parte di questa popolazione di oggetti che causano gli eventi di microlensing osservati da OGLE: un pianeta vagante catturato o un buco nero primordiale catturato.
La dimensione di questo cerchio potrebbe essere quella di un buco nero primordiale con una massa cinque volte superiore a quella della Terra, in agguato ai margini del Sistema Solare.
La cattura del Pianeta 9 è solo una delle possibili spiegazioni di come un tale, ipotetico pianeta, piuttosto grande, potrebbe essersi formato ai margini del Sistema Solare.
Altre opzioni sono: 1) che sia riuscito in qualche modo a formarsi nel punto in cui orbita attualmente, oppure 2) che si sia formato più all’interno, più vicino al Sole, e poi sia migrato verso l’esterno. La prima opzione è improbabile, perché la densità di materiale è molto bassa ai margini del Sistema Solare e 4,5 miliardi di anni non sono sufficienti per riunire tutti quei piccoli ammassi di roccia, lontani fra loro, e formare un pianeta così grande. Anche la seconda opzione è problematica, perché è necessario un evento che abbia dato il via alla migrazione, ma anche uno che la fermi una volta raggiunta l’orbita attuale. Quest’ultimo evento potrebbe essere un’interazione con una stella di passaggio, ma è poco probabile. Quindi, escluse queste due idee, l’ipotesi di un Pianeta 9 catturato è al momento la più gettonata.
I modelli di formazione dei sistemi planetari hanno dimostrato che durante il caos presente nel periodo della creazione dei pianeti intorno alle stelle, con pezzi di roccia che si scontrano e si agglomerano per gravità, o che si fiondano l’uno contro l’altro, molti planetesimi (cioè piccoli pianeti) vengono scagliati dalla mischia nello spazio interstellare. Pensiamo che uno di questi oggetti, chiamato “Oumuamua”, abbia attraversato il Sistema Solare nel 2017, passando a soli 24.200.000 km da noi, qui sulla Terra. Si tratta di circa il 16% della distanza Terra-Sole. Considerando quanto è grande lo spazio (pensiamo alle enormi distanze in gioco e ricordiamoci che lo spazio è tridimensionale e che quindi dobbiamo elevare al cubo qualsiasi numero enorme che abbiamo appena pensato), si ritiene che questi eventi siano incredibilmente rari e che la cattura gravitazionale di un tale oggetto da parte del Sole sia ancora più rara. Tuttavia, la probabilità di cattura non cambia se l’oggetto è un pianeta roccioso o un buco nero primordiale incredibilmente denso.
Se è un buco nero, come lo troviamo?
Il bello di questa ipotesi, ovvero che il Pianeta 9 sia un buco nero, è che spiegherebbe anche perché non lo abbiamo ancora trovato. Non soltanto con le ricerche più recenti, come quelle di Zooniverse, ma anche con quelle precedenti degli ultimi decenni, che avevano trovato altri oggetti della fascia di Kuiper. Non solo non riceveremmo alcuna luce da un buco nero, ma nulla si avvicinerebbe mai abbastanza da essere colpito direttamente da esso. Se il buco nero Pianeta 9 risultasse avere una massa cinque volte superiore a quella della Terra, il suo orizzonte degli eventi avrebbe un diametro di soli 9 cm, circa la dimensione di una pallina da tennis.
Ora, per quanto desideri disperatamente che questa ipotesi sia corretta, il problema è che se il Pianeta 9 fosse realmente un buco nero primordiale allora sarebbe incredibilmente difficile trovarne le prove. Va anche detto che se si tratta di un buco nero che esiste fin dai primissimi giorni dell’universo, negli ultimi 13 miliardi di anni circa avrà presumibilmente raccolto un piccolo alone di materia attorno a sé. Non si tratta necessariamente di un disco di accrescimento, ma solo di un ammasso di materia che viene trasportato dal suo movimento nello spazio, rendendo la regione circostante molto più densa del normale. Se quell’area è più densa, aumentano le probabilità che parte della materia incontri qualche rarissima particella di antimateria. Per fortuna nell’universo c’è molta più materia che antimateria, altrimenti non sarebbe mai esistito nulla di ciò che abbiamo visto in vita vostra, comprese le stelle. Perché quando la materia incontra l’antimateria si trasforma in energia pura rilasciata sotto forma di raggi gamma, il tipo di luce più energetico.
Sarebbe un grande regalo per gli astrofisici
Se il Sistema Solare avesse davvero un suo buco nero personale, dovremmo essere in grado di rilevare questa radiazione con i telescopi per i raggi gamma che abbiamo attualmente in orbita attorno alla Terra. La ricerca del Pianeta 9 non coinvolge solo gli astronomi ottici e infrarossi: anche gli astronomi dei raggi gamma sono stati invitati a far parte del gioco. Perché l’idea che il nostro buco nero più vicino possa trovarsi a ore luce anziché ad anni luce di distanza è sufficiente a catturare il cuore anche dell’astrofisico più ostinato. Per me, le prove teoriche sono molto convincenti, ma forse sono un po’ prevenuta in quanto scienziata dei buchi neri: un buco nero, proprio sulla soglia di casa mia, sarebbe il miglior regalo che l’universo potrebbe farmi.
Questo articolo richiama contenuti da Breve storia dei buchi neri.
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