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30 Ottobre 2017

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L'Italia non è l'America né la Germania; però una buona idea, sostenuta dalle competenze, può trovare la propria strada.

Diventare uno startupper e dare vita a un’idea imprenditoriale innovativa è il sogno di molti, ma spesso ci si dimentica che una startup è, prima di tutto, un’impresa. Trovata l’idea giusta, prima di esordire sul mercato bisogna affrontare una serie di questioni tipiche della fondazione di una nuova azienda, che spesso celano insidie. Alla loro soluzione si dedica il libro di Paolo Guccini, che abbiamo avuto il piacere di intervistare.

Apogeonline: Differenze tra una startup in Italia e negli USA.

Paolo Guccini: Sono tante, ma quella che ritengo più importante è dato dal mix di l’approccio mentale e competenze tecniche.

In linea generale, noi italiani siamo più portati all’agire e meno al pianificare, ovvero iniziamo i progetti con il concetto che i problemi si affronteranno man mano si presentano: non fasciamoci la testa prima di….

Questo consente il cosiddetto fast start, lanciare nuovi progetti con immediatezza, anche non avendo chiari i contorni di cosa si dovrà affrontare. Per una startup, quasi paradossalmente, questo sistema costituisce un significativo vantaggio competitivo perché opera in un contesto estremamente dinamico, in cui anche lo stesso business model può subire significative variazioni già nel primo anno di vita. Il termine flessibilità può essere utile per descrivere questo atteggiamento.

Le startup americane hanno un approccio più pianificativo al business, improntato sul tracciare un percorso e i relativi obiettivi, dalla crescita al disimpegno dei fondatori, ovvero la exit strategy. Del resto mandare un razzo sulla luna esclude l’improvvisazione! Ma anche per loro vige la necessità di essere flessibili, per adeguare l’offerta a un mercato non ancora ben identificato.

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Pianificazione oppure istinto? Fedeli alla linea oppure apertura alle opportunità?

 

Per esempio, se a una startup si chiede un servizio che essa non fornisce ma tecnicamente potrebbe, le risposte variano in base alla nazionalità: l’americano valuta la richiesta analizzando se è coerente con il proprio business per non disperdere risorse. L’italiano applica criteri più emotivi e di opportunità commerciale, rischiando di allontanarsi dal proprio percorso iniziale, trascinato dalle varie proposte che via via si presenteranno.

Ma l’accento lo vorrei porre sulle competenze: sono e fanno la grande differenza. La startup deve avere forti competenze interne oppure molto denaro per acquisirle. Non si imposta e gestisce una azienda di successo senza significative capacità organizzative e di gestione economica. Esagerando, con contratti blindati a tutela dell’azienda, si potrebbe giungere all’outsourcing anche delle altre attività strategiche. Ad esempio, Apple è una azienda con linee di articoli che sono costruiti da altre società site in altri continenti e mantiene un eccellente livello di controllo e gestione realizzando un cash flow quotidiano multimilionario.

Le competenze linguistiche sono un argomento per il quale mi batto da anni: dobbiamo abbandonare l’idea della sola lingua italiana, abbracciando, anche controvoglia, l’idea che siamo sessanta milioni e il mondo conta sette miliardi di potenziali clienti che non potranno mai essere raggiunti attraverso la nostra lingua madre. Il business va fatto oltre frontiera, quindi iniziando dall’immancabile inglese. Poi, per affinità culturali e relativa semplicità, spagnolo e francese.

Chiudendo le differenze, gli italiani hanno un concetto dell’azienda come entità quasi di famiglia, un qualcosa che si è costruito con tanta fatica e che, avviata, non va venduta: diventerà il lavoro che gli startupper, divenuti imprenditori, faranno per il resto della loro vita. D’altra parte, si tratta di qualcosa che costruiscono con la propria passione e sanno che la successiva startup potrebbe non avere lo stesso successo. Gli americani, all’opposto, creano la startup già pianificandone la vendita al terzo anno.

E l’Europa? Dov’è che fioriscono meglio le startup?

Germania e Spagna sono aree che vanno molto bene; infatti assistiamo a migrazioni di wanna be startup italiane verso tali Paesi. Spesso più per sentito dire che per reale conoscenza della normativa e dei vantaggi dati delle varie nazioni.

Il mio suggerimento è semplice: agire all’interno delle aree ove si ha maggiore conoscenza e capacità di interazione, soprattutto all’inizio. Per esempio, creare una startup a berlino è cool, ma come dialogare con un avvocato specializzato in diritto commerciale internazionale quando il meeting si terrà in tedesco o in inglese? Oppure, come affrontare una presentazione per trovare investitori se non si padroneggiano la lingua e la cultura dell’interlocutore?

Il primo passo è nascere in Italia, e, in caso di successo, si possono percorrere tutte le strade. Diversamente, i costi saranno notevolmente superiori e il denaro è l’aspetto critico delle startup. A tutti coloro che dicono che fare azienda in Italia è impossibile, rispondo che comprendo perfettamente tale punto di vista, ma in questi anni molto è stato fatto per facilitare e supportare l’avvio di nuove imprese. La strada è ancora lunga, ma oggi una startup innovativa può essere creata online in un paio d’ore, già in forma di società di capitali.

Le aziende fondate su un sogno sono sempre esistite. Apple è nata avventurosamente, Bill Gates era adolescente nel fondare Microsoft. È ancora così oggi? O c’è un approccio più scientifico, organizzato?

Non è più un mondo per i sognatori. Il business ha regole spietate e i sognatori possono trovare la propria strada se supportati da persone pragmatiche che li sollevino dalle attività quotidiane. Ad esse rimane la ricchezza personale dell’energia che possono infondere in qualunque interlocutore, per coinvolgerli e farli divenire sostenitori del progetto, affascinandoli ed emozionandoli. Apple è nata presentando a una fiera una scheda madre completa di tutti i componenti: un negoziante ne ha compreso le enormi potenzialità e le ha comprate vestite, immediatamente utilizzabili dal consumatore e non da un tecnico. Il sognatore aveva incontrato il proprio pragmatico, il quale gli aveva fatto comprendere come tradurre il sogno in miliardi di dollari. Letteralmente.

Realtà come Uber o AirBnb vengono ancora definite startup nei media, ma sembrano oramai società fatte e finite, sostenute da grandi investitori in attesa di una offerta pubblica di azioni. A che punto, a che livello si esce dall’età della startup per essere azienda vera?

Il terzo anno viene considerato quello di passaggio. In realtà perché dopo trentasei mesi di lavoro si sono bruciati i soldi disponibili e si deve chiudere, oppure la startup ha cominciato a produrre risultati tangibili.

Oggi un grande asset o valore di una startup è dato dal numero di iscritti, associati, partecipanti. Soprattutto se profilati. Basta pensare all’importo pagato per acquistare Linkedin: il valore proveniva dai milioni di iscritti con un notevole livello di dettaglio per singola persona.

E lo stereotipo degli startuppari che lavorano venti ore al giorno, vivono di cartoni di pizza, dormono sopra divani e sotto scrivanie? È realistico?

Rispondo diplomaticamente: i nostri startupper hanno rispetto del proprio tempo ibero e bilanciano il proprio impegno nell’attività professionale.

Ma se si incontrano quelli che hanno avuto successo o stanno incominciando ad averlo, rispettando le scadenze del piano di lavoro e magari ottenendo finanziamenti, molto spesso hanno ritmi di lavoro da imprenditore, ovvero ben oltre le dieci ore di lavoro quotidiano e con impegno profuso praticamente sull’intera settimana, andando a letto pensando all’azienda, alle difficoltà e come superarle nel modo migliore.

Per quanto riguarda i cartoni di pizza, non ci sono perché sono come il pesce, gli ospiti e i problemi: due giorni dopo puzzano… e, spesso, la mamma li ha già portati fuori.

A chi è diretto il libro? Che cosa offre in cambio della lettura?

Il libro è assolutamente diretto e pragmatico, utile per chi non ha tempo per leggere ma ha bisogno di risposte e alle migliaia di domande che nascono ogni giorno: quanto costa il commercialista? Come lo scelgo? Prendo un locale per la sede della startup e cosa devo tenere presente? Come posso risparmiare sulle licenze software? Come posso accettare i pagamenti e quali sono i relativi costi? Come posso parlare della mia idea evitando che mi sia copiata?

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Quando sorge un’idea, inizia un’avventura.

 

Insomma un manuale da tenere sempre al proprio fianco per trovare i suggerimenti e sapere cosa chiedere quando si incontrano altre persone.

Come detto, le startup c’erano anche prima di Internet, del cloud, del mobile. Queste tecnologie hanno cambiato, e se sì come, il modo di fare startup?

Il mobile ha cambiato tutto, addirittura i rapporti interpersonali. E questo ha creato spazi enormi da riempire con servizi e app: basta guardare WhatsApp e Facebook: nuovi modi per comunicare e stare assieme…

Si tratta di una opportunità di livello globale, dai contorni economici che superano le cifre a nove zeri. E con guadagni estremamente interessanti: in linea assolutamente teorica, una app potrebbe essere fruita da qualunque persona del pianeta connessa ad internet.

E non va dimenticata l’incredibile opportunità dell’Internet delle cose: il numero e le applicazioni degli oggetti collegabili sono praticamente infiniti. Un mercato incredibile che lo startupper può cogliere con l’idea giusta e una buona organizzazione, tenendo in considerazione il nuovo aspetto di fare impresa: la velocità in tutto.

È un modo di dire che in Italia l’azienda innovativa fondata in un garage privato verrebbe chiusa in una settimana da Agenzia delle Entrate, ASL, sindacati, TAR, amministrazioni locali e via burocratizzando. C’è purtroppo almeno un fondo di verità; tuttavia di startup italiane ne esistono. Come fanno a decollare nonostante l’incapacità del settore pubblico?

Decollano per la determinazione dei fondatori. Gli elementi importanti sono l’impegno e il denaro. I problemi di una burocrazia e di una normativa opprimente sono realtà quotidiana, ma la volontà e il desiderio di riuscire nel progetto compensano quei momenti di scoraggiamento che, quasi fisiologicamente, si incontreranno.

Un consiglio per chi ha l’idea in testa e vorrebbe scommetterci sopra, ma non si è ancora deciso? A parte leggere Startup?

Pensarci bene e cercare di capire quali siano i propri valori, desideri, ambizioni. Poi confrontarle con la figura di imprenditore, che è generalmente rappresentata come persona di successo sociale e con più disponibilità economiche della media, ma anche con un importante fardello di responsabilità, obblighi, impegni, scadenze; soprattutto, poco tempo libero. Dopo, valutare l’idea di business con persone che abbiano le necessarie competenze: ho visto startup con idee valutate troppo fantasiose che dopo tre anni stanno tranquillamente proseguendo il proprio sviluppo grazie alle competenze e capacità di coloro che ci lavorano.

Se dovessi scommettere oggi su una startup italiana…?

Ce ne sono tantissime con idee fantastiche e vi sono una quantità di startupper tecnicamente capaci oppure con valide competenze relazionali che sono indispensabili per muovere i primi passi. Scommettere su una startup significa conoscere i fondatori e il loro commitment, ovvero la loro determinazione al sacrificio e al successo. È la motivazione personale che spinge al successo. Quindi non scommetterei sulla startup, ma eventualmente sull’individuo.

Riguardo al tema, esiste una risorsa unica, completamente rinnovabile, totalmente ecologica: il patrimonio culturale italiano. L’Italia si dimentica di possedere una quantità di arte ineguagliata nel mondo.

Una startup che si lanciasse nel mondo per rendere accessibili o fruibili i nostri tesori potrebbe realmente sfondare. Basta guardare le code di turisti davanti ai maggiori musei per capirne l’enorme potenziale: musei, pinacoteche, biblioteche storiche e tanto altro ancora, talvolta sconosciuto a chi abita in quelle stesse città, destinazioni di flussi provenienti da tutto il mondo. Quante sono le persone che non accederanno mai alle destinazioni minori? Milioni. L’ipotesi di rendere visibile un’opera d’arte da casa a chiunque nel mondo, pagando pochi centesimi ogni visualizzazione in alta risoluzione, in realtà virtuale potrebbe diventare un bel business: parliamo di un mercato potenziale di centinaia di milioni di persone con decine di migliaia di opere.

L'autore

  • Paolo Guccini
    Paolo Guccini ha un’esperienza pluridecennale nella direzione d’azienda. Ha operato in realtà di tutte le dimensioni, da PMI a grandi multinazionali, confrontandosi con reparti differenti come acquisti, vendite, marketing, produzione, ICT, amministrazione. Da questa profonda e completa conoscenza dei processi e delle dinamiche aziendali è nata la sua attività di formatore e temporary manager. Ha aiutato numerose startup a esordire sul mercato.

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