Home
Wearable Computers: moda del futuro o tecnologia di oggi?

15 Settembre 2003

Wearable Computers: moda del futuro o tecnologia di oggi?

di

I computer stanno diventando sempre più piccoli al punto che tendono a scomparire in una varietà di oggetti

Non ci accorgiamo, ad esempio, che la schedina che ci viene data in alcuni alberghi per aprire la porta contiene un piccolo computer così come non facciamo caso al fatto che la macchina fotografica digitale che abbiamo infilato nel taschino contiene uno (o più) computer.

Quando si parla di computer lo immaginiamo ancora come un oggetto che sta sopra, o sotto, una scrivania. Eppure già questo segna un’evoluzione importante rispetto a quello che immaginavamo solo venti anni fa al sentire la parola computer. Allora veniva in mente una grande stanza piena di armadi con persone in camice bianco che, sacerdoti tecnologici, interagivano misteriosamente con quelle macchine.

Nel prossimo futuro forse la parola computer sparirà in quanto non saremo più in grado di associare a questa un oggetto con una forma specifica. Tutti gli oggetti saranno in grado di fare quelle cose che oggi sappiamo sa fare un computer.

Certo che il salto che porta dal concepire il computer sopra una scrivania a quello di indossarlo non è piccolo. E perché mai, in fondo, dovremmo indossare un computer? E immaginando che possano esistere dei motivi che ci portano in alcune situazioni ad indossarlo arriveremo ad un punto in cui sarà una cosa talmente comune che non solo non vi presteremo più attenzione in termini di funzionalità ma inizieremo a considerarlo come un elemento soggetto alla moda…

In fondo non sono pochi gli esempi di queste trasformazioni. Secoli fa misurare il tempo richiedeva macchine complesse e ingombranti, orologi che si mettevano sui campanili. L’evoluzione tecnologia li ha rimpiccioliti e resi meno cari, alla portata di molti “taschini”. Poi sono diventati, in tempi relativamente recenti, 80 anni fa, degli oggetti che si potevano tenere al polso.

Ancora più recente è la perdita di percezione del valore dell’orologio. Sono scomparse le pubblicità sulla precisione dell’orologio. Oggi questa è data per scontata e nessuno più ci fa caso. Per contro l’orologio è diventato un vero oggetto da indossare, da coordinare con l’occasione, con il nostro umore, con il vestito. È diventato una moda.

Oggi quasi tutti abbiamo con noi un telefonino e nessuno si stupisce. Può invece stupire l’immagine qui a fianco di un signore che si porta un telefono (piuttosto ingombrante) al collo. Questa fotografia è relativa ad un operatore della società di telecomunicazioni di Roma negli anni venti che prestava servizio alla stazione Termini. Quando un passeggero in partenza desiderava fare una telefonata richiamava la sua attenzione e questo inseriva il cordone telefonico che gli vediamo in mano nella più vicina “presa” telefonica (posizionate in vari punti lungo le pensiline) porgendogli poi la cornetta per telefonare. Quando arrivava una chiamata varie lampadine posizionate vicino alle prese si mettevano a lampeggiare. L’operatore infilava lo spinotto nella presa più vicina e si faceva dire il nome della persona desiderata. Quindi urlava quel nome e se qualcuno rispondeva gli si avvicinava e gli porgeva la cornetta.

Questa foto ci fa capire quanto la possibilità di comunicare fosse ritenuta importante anche un secolo fa e ci fa capire che il successo del telefonino ha radici lontane.

Oggi il telefonino è diventato un oggetto comune e come tutti gli oggetti comuni si presta ad essere re-interpretato da designer come mostrato nella fotografia a lato ripresa da una pubblicità di questi giorni.

Il telefonino è uno Xelibrì[1], una nuova società che punta sullo sviluppo di telefonini semplici (fanno una sola cosa: vi permettono di telefonare) ripensati come oggetti da indossare e…da cambiare spesso seguendo la moda.

Una sorta di Swatch nel campo dei telefonini, come possiamo anche vedere osservando la pubblicità su internet in cui non esiste alcun riferimento alla “qualità” nel senso della comunicazione (ricezione, ricezione dati…) ma solo ad elementi di tipo estetico e al fatto che il possederlo ha un significato di appartenenza ad un gruppo di persone attente alla moda.

Il telefonino si trasforma quindi. Da oggetto che portiamo sempre con noi, nella borsetta o in un taschino diventa un oggetto da indossare, come un orologio. Ed in effetti esistono già diversi telefonini che hanno trovato posto in un orologio come quello nella foto.

L’orologio-telefonino contiene un microfono mentre per ascoltare la voce di chi ci parla abbiamo bisogno di un auricolare che può essere collegato all’orologio tramite un filo oppure tramite radio, ad esempio Bluetooth.

In uno spazio così piccolo diventa difficile inserire tasti sufficientemente grandi per permettere di selezionare un numero. La selezione può essere fatta a voce, cifra per cifra oppure pronunciando il nome della persona che vogliamo chiamare e che è stata precedentemente inserita nell’agenda.

Rimane un problema, e non da poco. L’alimentazione. Infatti in un oggetto piccolo come un orologio lo spazio disponibile per le “pile” è molto ridotto e quindi con le attuali tecnologie anche la possibilità di immagazzinare energia.

Questo è il motivo per cui non vediamo in giro molti orologi telefonino. Dopo mezz’ora di conversazione, anche meno, occorre ricaricare le batterie. La evoluzione tecnologia, nell’arco di 4-5 anni, potrebbe fornire una soluzione anche a questo problema ed allora potremo iniziare a vedere molte più persone che parlano con il proprio orologio.

In Giappone sono andati oltre ed hanno realizzato un orologio-telefonino che non ha bisogno di un auricolare. Il suono viene trasmesso facendo vibrare le ossa del polso. Se ci si infila un dito nell’orecchio si riesce ad sentire la voce di chi ci parla. La tecnologia, tutto sommato, non è neppure “nuova”: molti di noi hanno costruito da piccoli dei telefonini con coppette di gelato collegate da un filo di lana le cui vibrazioni consentivano di trasmettere il suono da una coppa all’altra. Anche l’aspetto estetico non è tra i migliori….

I telefonini tuttavia rappresentano solo un esempio di wearable computer, da cui tutto sommato era opportuno partire dato che essi sono diventati parte della esperienza di tutti i giorni.

Nel caso dei telefonini abbiamo una tecnologia che prende una forma tale da poter essere indossata. Abbiamo però anche il caso opposto, cioè oggetti che indossiamo normalmente e che possono assorbire tecnologia per fornirci altre possibilità di utilizzo.

Un esempio è quello dei gioielli come l’anello nella foto.

In un anello è possibile racchiudere un chip in grado di comunicare con l’ambiente, di contenere informazioni e di visualizzarle ad esempio illuminando la pietra (preziosa o meno). Al Media Lab di Boston, dove sono in corso alcuni programmi di ricerca dai nomi suggestivi come Things That Think[2] e Digital Life[3] si studia cosa potrebbe succedere nella vita di tutti i giorni se ogni oggetto avesse incluso in se stesso un computer e fosse in grado di scambiare informazioni con l’ambiente in cui si trova.

L’anello realizzato ha un chip che rileva l’umore della persona che lo indossa, conosce le sue preferenze in dipendenza dall’umore e fa illuminare la pietra quando si verificano certe condizioni. Ad esempio potrebbe essere indossato da una persona che lavora in una azienda. Al suo interno contiene sia le informazioni relative alla sfera privata, cosa interessa fare nel tempo libero,…e anche quelle relative al lavoro. Anzi per queste si può immaginare che l’anello comunichi con il PC situato sulla scrivania in ufficio e ad esempio memorizzi che nel progetto su cui si sta lavorando servono certe informazioni. Quando la persona incrocia un collega l’anello può dialogare magari con il PDA che questo ha nel taschino per chiedergli se è a conoscenza delle informazioni che si stanno cercando e in caso positivo la pietra si illumina segnalando la cosa alla persona.

Il ciondolo nella foto è un portachiavi in cui è stato inserito un chip in grado di trasmettere un insieme di informazioni. Ad esempio, e questo è un uso già attuale, il ciondolo può servire per comunicare all’auto la propria identità facendo sì che questa si apra e posizioni il sedile nella posizione adatta per quella persona. Lo stesso ciondolo può permettere l’apertura del garage e della porta di casa o di fare rifornimento di benzina effettuando un pagamento elettronico. La sicurezza può essere assicurata in vari modi, ad esempio il ciondolo comunica le informazioni solo se viene autorizzato a farlo da un altro componente che deve essere sufficientemente vicino per poter stabilire una comunicazione. Il tappo del serbatoio della macchina può contenere uno di questi componenti in modo tale che se perdessi il ciondolo questo non potrebbe essere utilizzato per fare il pieno ad un’auto diversa dalla mia. Un microchip contenuto nella cintura invece potrebbe essere il componente necessario per far dialogare il ciondolo con l’auto e far si che questa si apra quando mi avvicino…

Lo strano monocolo presentato nella figura consente di sovrapporre a quanto ci è attorno, e che vediamo, una varietà di informazioni. Potrebbe, ad esempio, essere utilizzato durante una visita ad un museo consentendo di sovrapporre al quadro che stiamo osservando delle informazioni relative all’autore, allo stile, attirare la nostra attenzione su alcuni particolari…

Le immagini che vengono visualizzate sono gestite da un computer che può essere in grado di gestirne la presentazione, assicurandosi ad esempio che queste siano visibili senza nascondere il mondo esterno…

Queste tecnologie sono in genere molto sofisticate e oggi ancora costose. Avere una buona resa nella visualizzazione di informazioni richiede infatti sia un sistema ottico su cui visualizzarle sia una telecamera che cattura l’immagine della realtà esterna per consentire al computer di integrare in modo opportuno l’informazione artificiale con quella presente nel mondo esterno, sia un sistema di rilevazione di dove la persona sta guardando in quel momento in modo tale che le informazioni presentate siano pertinenti. Il costo di un sistema di questo tipo, applicazioni escluse, è oggi intorno ai 20.000 euro. Entro qualche anno non è irrealistico pensare a costi di almeno un ordine di grandezza inferiore.

Il medaglione nella figura ha fatto la sua comparsa in alcuni convegni sostituendo il cartellino che in questi casi le persone si appiccicano sulla giacca per far sapere il loro nome.

Il vantaggio di questo medaglione rispetto ad un normale cartellino è la sua capacità di contenere informazioni (anche molte…) e di comunicarle, in parte in modo autonomo e in parte su richiesta di chi lo indossa.

Nella fase di registrazione al convegno si potrebbe ad esempio memorizzare all’interno del medaglione oltre al nome (che appare poi sullo schermo) le coordinate della persona (indirizzo di email, telefono…e quant’altro la persona abbia interesse a condividere). Inoltre è possibile anche inserire informazioni sulle aree di interesse di quella persona, sia nel senso di ciò che lui sa ed è disposto a condividere sia rispetto a ciò che desidera sapere.

La quantità di informazioni che possono essere immagazzinate è potenzialmente enorme. Le più recenti compact flash arrivano a contenere 4 GB di informazioni, l’equivalente di 4 ore di filmati o di 4 milioni di pagine di testo….

Il medaglione comunica con gli altri medaglioni presenti nella sala e può scambiare informazioni e segnalare la presenza di persone con certe caratteristiche facilitando la aggregazione. Inoltre può essere utilizzato come blocco degli appunti nel senso che quando si parla con qualcuno si può richiedere al medaglione di memorizzare informazioni presenti nel medaglione dell’altra persona (che sia ovviamente disponibile a fornirle). A fine convegno le informazioni raccolte potranno essere “scaricate” sul nostro sito personale per un loro successivo utilizzo.

In prospettiva questi medaglioni diverranno veri e propri strumenti di raccolta informazioni collegate al convegno (o al contesto). Non è difficile immaginare medici in ospedale che sostituiscano la loro targhetta di identificazione con questi medaglioni e che nei loro giri in reparto memorizzino informazioni sullo stato dei pazienti. In alcuni ospedali ovviamente applicazioni di questo tipo, basate su PDA, sono già di uso quotidiano. Il medaglione, semplicemente, rende più trasparente il rapporto con l’informazione, più di quanto non faccia un PDA che rimane uno strumento “visibile”.

Un normale paio di occhiali può essere equipaggiato con un sistema di riconoscimento di oggetti o di facce (una tecnologia ancora in stadio di maturazione) consentendo di bisbigliare all’orecchio della persona informazioni relative a ciò che questa sta vedendo. Alcune aziende in USA stanno lavorando proprio per rendere possibile il riconoscimento delle facce in modo da poter suggerire i nomi associati a quelle facce. Pare infatti che oltre il 50% delle persone con l’avanzare dell’età abbia grosse difficoltà nel ricordarsi i nomi di persone che continua a riconoscere visivamente ma a cui non sa più “associare” il nome.

Diventeremo dei Robot?

Certo che vedendo come tutti questi oggetti man mano assumano delle capacità di dialogare con noi, e a volte anche al posto nostro, aumentando le nostre capacità ci si può porre la domanda se non ci stiamo avviando su una strada in cui saremo meno umani e più robot, come potrebbe sembrare la persona in questa immagine.

Questa è la fotografia di un tecnico della società di telecomunicazioni americana Ameritech[4]. È stato equipaggiato con una telecamera e un visore (sull’elmetto) un computer e un sistema di trasmissione dati alloggiati nelle varie tasche del giaccone, di un joystick giroscopico e di una tastiera “cucita” sulla manica.

Questo equipaggiamento è stato sviluppato per un esperimento, di successo, sulla manutenzione assistita degli impianti. Il tecnico quando si recava per un guasto in un posto anche remoto era comunque in contatto audio e visivo con un centro di assistenza. Le cose che lui vedeva sul posto erano contemporaneamente viste anche da tecnici del centro che potevano aiutarlo nella analisi e guidarlo nella riparazione. Per questa era possibile far vedere come il tecnico nel centro riparava il guasto e far seguire passo passo le varie fasi.

Equipaggiamenti di questo tipo sono diventati comuni in alcune professioni, ad esempio per i tecnici che devono effettuare riparazioni sugli aerei. Un aereo quando si guasta deve essere riparato sul posto (quasi sempre). E siccome, fortunatamente, i guasti sono un fatto raro non è possibile mantenere in tutti gli scali del personale perfettamente addestrato. In presenza di un guasto, quindi, il tecnico locale si collega con il centro di assistenza della Boeing (la prima ad avere adottato questi sistemi) e viene guidato nella riparazione. Non solo. I tecnici dal centro vedono come quello sul campo sta effettuando la riparazione e sono pronti ad intervenire se questo fa qualcosa di anomalo.

Certo che vedendo una persona “imbardata” con tutti questi sistemi la prima reazione è: poveretto! Io, mai. Eppure non siamo diventati tutti o parecchi dei piccoli robot come questa ragazza nella immagine?

Questa non è una ragazza che svolge una professione particolare, magari una centralinista, che dovendo comunicare e mantenere libere le mani si è inserita un auricolare radio (Bluetooth) che si collega ad un telefonino. È una ragazza qualunque che ha comprato questo tipo di auricolare e che lo usa normalmente.

Esistono già vari componenti elettronici che possono essere non solo indossati ma addirittura impiantati nel nostro corpo. Ad esempio è stato creato un micro altoparlante che può essere impiantato in un dente e che trasmette il suono all’orecchio interno sotto forma di vibrazioni (come faceva il giapponese con quell’orologio che faceva vibrare le ossa). Esistono vari tipi di microchip che possono essere impiantati sotto pelle per le più svariate funzioni, dalla identificazione al monitoraggio di certi parametri vitali alla erogazione di medicinali a tempo o su comando.

L’elemento che forse porta ad una maggiore evoluzione nel nostro rapporto con il mondo esterno è fornito dalla capacità di comunicare che tutti questi vari aggeggi, che prima o poi vorremo indossare, hanno.

La comunicazione non si svolgerà direttamente tra ciascun aggeggio e una rete esterna, quale quella di telecomunicazioni o la rete domestica o aziendale. Piuttosto avremo che questi vari elementi parleranno tra di loro nell’ambito di quella che i tecnici chiamano PAN[5[, Personal Area Network, rete personale di comunicazione.

Come mostrato nella fotografia, presa a prestito dalla Motorola che ha creato un laboratorio sui wearable computer, la penna comunicherà quanto stiamo scrivendo, un orologio telefono riceverà segnalazioni da vari sensori medicali e immagini dagli occhiali, il PDA potrebbe fare da direttore d’orchestra istruendo i vari wearable su quali sono le nostre preferenze.

La comunicazione tra tutti questi aggeggi oggi è possibile tramite Bluetooth; probabilmente nel giro di qualche anno le comunicazioni avverranno con altre tecnologie. La più promettente, per ora, sembra essere UWB, Ultra Wide Broadband, in grado di scambiare dati a velocità vicine a 500 Mbps consumando poca energia e senza interferire, date le basse potenze in gioco, con altri sistemi radio.

I veri Wearable

Fino a questo punto abbiamo parlato di computer da indossare, sia pure nascosti in una varietà di oggetti.

Ma se si parla di indossare il punto di partenza, ed anche di arrivo, dovrebbe essere il vestito, e per fare un vestito ci vuole ovviamente la stoffa.

Anche in questo antichissimo settore i progressi in senso tecnologico, sono stati moltissimi.

Nella figura a lato è stata fotografata una stoffa costruita a partire da fili di cotone che sono stati ricoperti con delle sostanze particolari in grado di cambiare il loro colore al variare di sollecitazioni elettriche (che provocano un micro riscaldamento delle fibre). Questo tipo di stoffe, chiamato anche un po’ pomposamente e-textile, cioè tessuti elettronici, sono già in commercio e vengono utilizzati per fare tappeti e rivestimenti quando si vuole avere la possibilità di cambiare colori e disegni. Nei prossimi anni le vedremo sempre più spesso anche nella confezione di vestiti.

In ambito militare questo tipo di stoffe, pilotate da computer, sono utilizzate per creare vestiti mimetici che riproducono sulla stoffa quanto si trova dall’altra parte. In pratica rendono la persona quasi trasparente. L’ultimo film di 007 non ha quindi proposto uno scenario impossibile con l’auto trasparente, ha solo anticipato un po’ i tempi.

Esiste già la tecnologia che consente di inglobare nella trama e nell’ordito della stoffa dei fili che possono trasformarla in un circuito stampato. Nella fotografia sopra un ingrandimento di una stoffa di seta sui cui fili (particolarmente sottili nel caso della seta) sono stati inglobati dei conduttori elettrici. Questi sono talmente sottili che non alterano le caratteristiche di flessibilità tipiche delle stoffe.

Su queste stoffe “a circuito stampato” diventa relativamente semplice inserire dei chip, come rappresentato nella figura a lato. I piedini del chip non si collegano a piste di rame ma ai sottili fili contenuti nella stoffa. Non solo.

La tecnologia stessa dei chip oggi permette di creare componenti elettronici molto sottili, i cosiddetti thin film[6], che hanno caratteristiche simili alla plastica per quanto riguarda la flessibilità e si prestano quindi ad essere inseriti nelle stoffe.

Come mostrato nella figura i ricami sulla stoffa possono essere utilizzati per costruire l’interfaccia. In questo caso sono stati ricamati sulla stoffa alcuni numeri per emulare una tastiera.

Ricami di questo tipo posti sulla manica di una giacca o di una camicia possono essere intuitivamente utilizzati per selezionare un numero di telefono, lasciando il telefonino annegato in qualche parte della stoffa.

La possibilità di inserire sensori nella stoffa può essere utilizzata come un ulteriore sistema di interfaccia, ad esempio si può immaginare di predisporre aree su cui scrivere con un piccolo stilo in plastica così come oggi si fa sullo schermo di un palmare. La stoffa, inoltre, potrebbe cambiare colore per qualche attimo in modo da visualizzare quelle che si sta scrivendo. In fondo un ritorno al tempo dei bisnonni che avevano l’abitudine di scrivere sui polsini delle camice (senza però fare arrabbiare la bisnonna che si trovava a dover lavare via le scritte).

Ancora, la tecnologia consente di annegare dei piccoli dispositivi per visualizzare informazioni, come i laser nella fotografia. Questi sono piccolissimi, nella foto vengono messi a confronto con la cruna di un ago, e sono in grado di proiettare una immagine a qualche decina di centimetri di distanza.

Si può immaginare di inserirli, ad esempio, nella manica o anche in un anello, e usarli per proiettare su un foglio delle immagini.

Altre tecnologie di visualizzazione sono allo studio, alcune già a livello di prototipi, e consentiranno di utilizzare schermi che da un lato consentono di visualizzare immagini e dall’altro hanno caratteristiche simili alla stoffa per cui possono essere inclusi in questa.

Armati di queste nuove stoffe, gli e-textile, possiamo passare a costruire i vestiti.

Ed in effetti non sono poche le case che a livello prototipale hanno proposto vestiti elettronici.

La Sony, ad esempio, ha sviluppato insieme ad una azienda di abbigliamento un giaccone, fotografato sopra, in cui viene inserito il suo sistema musicale miniDisk. I comandi per il miniDisk, che è contenuto in una tasca del giaccone, vengono forniti tramite pulsanti “ricamati” sulla manica.

L’interesse di questo giaccone va oltre la sua capacità di pilotare il miniDisk della Sony. Infatti il giaccone è stato pensato per essere configurabile: a seconda delle necessità possono essere inserite nel giaccone una varietà di apparecchiature elettroniche realizzando i necessari collegamenti tramite la stoffa del giaccone e ricamando quanto serve per l’interfacciamento. Si possono ad esempio inserire altoparlanti nella parte posteriore del colletto, un microfono sulla parte anteriore del colletto, telecamere nei punti desiderati….

A differenza di questa la giacca della Lewis è già un po’ datata. È arrivata nei negozi in Germania da qualche stagione ad un prezzo intorno ai 900 euro (non poco…) che comprendevano oltre alla giacca anche un insieme di altoparlanti tra cui un woofer nella schiena che faceva tremare le ossa con i bassi, un lettore di CD e le cuffie. Inoltre aveva le predisposizioni per un walkman e si poteva inserire un altro paio di cuffie per rendere partecipe l’amico. Un vero e proprio impianto stereo da indossare.

L’interesse per questa giacca sta nell’osservare che pur non avendo avuto un enorme successo (normale dato il prezzo) ha trovato molti fans che l’hanno comprata e usata con soddisfazione o che l’hanno desiderata.

Esiste, quindi, un mercato, almeno a livello di un pubblico giovane che ha interesse ad indossare l’elettronica, ovviamente non in quanto tale ma in quanto erogatrice di servizi.

Che i giovani siano interessati a vestiti elettronici, in particolare sul versante dell’intrattenimento, non stupisce. Interessante è notare che questo tipo di tecnologie sta facendo i primi, timidi, passi anche nel settore dell’alta moda, come mostrato nelle foto a lato scattate ad una sfilata. Gioiello e vestito erano elettronici, cioè avevano dei chip che a seconda di vari parametri reimpostati e catturati dall’ambiente facevano variare colori e luminescenze.

L’effetto era sicuramente nuovo, tale da colpire l’immaginazione, cosa che si propone appunto di fare l’alta moda. L’elettronica in questo settore promette di offrire, quindi, un ulteriore modalità espressiva agli stilisti.

Non c’è, però, solo l’alta moda. I vestiti elettronici si presentano interessanti per applicazioni pratiche in vari settori.

Infatti sensori inseriti nei vestiti a contatto con la pelle possono fornire importanti “letture” sullo stato del nostro organismo. Informazioni importanti per gli atleti che fanno sport e che possono migliorare i loro allenamenti verificando istante per istante le reazioni dell’organismo. Importanti, forse ancora di più, per persone che soffrono di certe patologie a cui l’essere costantemente sotto controllo offre tranquillità e sicurezza. Sono anche stati sperimentati in Inghilterra dei reggiseno in grado di rilevare lo stato emotivo di una persona. Opportunamente “tarati” in modo da essere in grado di distinguere le varie emozioni e il loro grado possono essere utilizzati per inviare segnali di soccorso nel caso di aggressioni. Infatti quando rilevano un alto livello di paura possono mandare un SMS via cellulare collegato in bluetooth con il reggiseno insieme alla posizione in cui si trova la persona per sollecitare un pronto intervento.

L’inserimento di sensori in abiti che si indossano normalmente li rende trasparenti e meno intrusivi.

Non solo. Sensori collocati sui vestiti “esterni” potranno essere in grado di rilevare sostanze potenzialmente nocive, ad esempio pollini a cui si è allergici o particolari batteri. Sensori di questo tipo sono già in fase di sperimentazione in alcuni ospedali inglesi per rilevare batteri introdotti da visitatori e intervenire prontamente.

Le nanotecnologie promettono di far fare ulteriori progressi. Sono stati annunciati di recente, ad esempio, dei sistemi basati su nanotecnologie per rilevare virus che in prospettiva potrebbero diventare di uso comune.

Una ulteriore evoluzione deriva dai cosiddetti “smart materials” cioè materiali intelligenti, in grado quindi di cambiare le loro caratteristiche a seconda delle esigenze.

Nella fotografia sotto si vede un’applicazione di questi tessuti alle spalline di un reggiseno. Un computer tramite dei sensori rileva il movimento della persona e invia comandi al tessuto delle spalline, dei segnali elettrici che deformano la struttura del materiale rendendolo più o meno rigido a seconda delle necessità aumentando il comfort di chi lo indossa.

In questa categoria degli smart materials fanno parte anche nuovi materiali che utilizzano nanotecnologie per dare particolari caratteristiche ai tessuti, ad esempio renderli refrattabili alle macchie o in grado di cambiare la permeabilità all’aria (e quindi il calore mantenuto). Per poter entrare nel campo dei wearable, tuttavia, questi smart materials devono in qualche modo interagire con un computer, che ad esempio rileva la temperatura esterna, quella corporea e il tipo di attività che si sta facendo variando in conseguenza le caratteristiche del tessuto.

Ovviamente portarsi addosso questi vestiti elettronici richiede una appropriata sorgente di alimentazione, le batterie. Questo è il punto più critico in quanto nonostante i progressi effettuati in questi venti anni questi non hanno ancora risolto il problema.

Tra i diversi tentativi di arrivare ad una soluzione è interessante notare quello che sposta la responsabilità di fornire energia ai wearable stessi, in particolare utilizzando delle scarpe che grazie all’elettronica e all’effetto piezoelettrico riescono a trasformare parte dell’energia che dissipiamo camminando in energia elettrica con cui ricaricare le batterie.

Un futuro… un po’ più in là

Le nanotecnologie promettono di cambiare molti modelli che oggi diamo per scontati e in diversi settori, compreso quello dei wearable.

Immaginiamo di avere una stampante che come inchiostro utilizzi delle nanosostanze, ad esempio delle fibre di cotone ridotte a dimensioni nanometriche.

Scarichiamo da internet il modello di un vestito che ci piace e tramite una applicazione che abbiamo sul nostro computer facciamo costruire il modello di vestito adatto alle nostre dimensioni che il computer conosce per avere ricevuto i dati da uno scanner tridimensionale con cui abbiamo “fotografato” il nostro corpo.

Questo modello può a questo punto essere inviato ad un’altra applicazione che provvederà a mandare tutte le informazioni alla stampante in modo tale da produrre il vestito.

Oggi abbiamo già delle macchine “per fare maglioni” che sono pilotate da dei computer. Quello che aggiungiamo in questa proiezione nel futuro è che queste macchine anziché servirsi di componenti macro, come i filati di lana, utilizzino componenti micro, le nanosostanze.

La costruzione di un vestito a partire da queste nanosostanze permette di creare un vestito in parte composto da cotone, lana…e in parte, dove serve, composto di componenti elettronici, anche questi creati a partire dalle nano sostanze e stampati come un tutt’uno con il resto del vestito.

Interessante notare come questo sarà un vestito pensato per una ben specifica circostanza e conterrà tutta la tecnologia che serve per quella circostanza, comprese informazioni che potrebbero tornare utili. Se è pensato per andare a vedere una partita di baseball probabilmente la nostra applicazioni farà in modo di caricare nel vestito le statistiche dei vari giocatori di baseball, fornirà un ingresso per una telecamera le cui immagini potranno essere visualizzate su una parte del vestito in modo da vedere meglio la gara…

Possiamo a questo punto indossare il nostro vestito e dopo averlo usato anziché metterlo in lavatrice o portarlo in tintoria potremo inserirlo in una macchina che decomporrà i vari elementi nelle nano sostanze originarie andando quindi a riempire i contenitori di inchiostro della nostra stampante.

Un altro scenario, sempre nel futuro…futuro, emerge da quanto alcuni grandi progetti di ricerca stanno facendo e pensano di ottenere nei prossimi anni.

LifeLog, ad esempio, è un progetto lanciato dal DARPA, il ministero della difesa americano[7], che si propone di realizzare le tecnologie di base necessarie per catturare suoni e immagini che attorniano la nostra esistenza in quanto individui. L’idea è che ciascuno di noi potrebbe avere su di sé, incluso nei vestiti di ogni giorno, un sistema che raccoglie quanto vediamo, ed anche quello che ci sfugge perché magari siamo concentrati su qualcosa e perdiamo la sensazione di cosa sta capitando attorno a noi, e tutti i suoni che potremmo sentire se solo ci badassimo memorizzando il tutto in un modo tale da rendere possibile poi la ricerca anche a distanza di anni.

È un po’ come avere un diario digitale di tutta la propria vita.

Questo progetto non è il solo ad esplorare questo tema. Microsoft sta lavorando ad obiettivi simili con MyLifeBits e HP ha un progetto simile per la raccolta di immagini di quello che stiamo osservando.

I nostri vestiti quindi potrebbero non solo diventare un modo per rendere più confortevole il nostro rapporto con l’ambiente, ricreando condizioni ideali di temperatura, ma un’interfaccia vera e propria in grado di raccogliere e conservare sensazioni.

Certo tutto questo è ancora di là da venire e anche alcune delle cose di cui si è trattato potrebbero rimanere nel cassetto delle potenzialità che non si realizzano.

Che i computer, comunque stiano rapidamente pervadendo tutto l’ambiente in cui viviamo e che la comunicazione tra di loro e tra loro e noi apra la strada a evoluzioni interessanti non può essere messo in discussione. Quello che occorre discutere è il come percorrere questa strada interrogandosi anche dove si voglia arrivare domani. Per il dopodomani, probabilmente, è meglio aspettare ancora un po’ per decidere la direzione senza però smettere di lavorare per renderla possibile. È quanto si sta facendo in molti laboratori di ricerca, tra cui quello di Telecom Italia.

L’area dei wearable computer è affascinante anche perché riunisce insieme molte discipline e richiede il contributo di tecnici, designer, psicologi…e molti altri, noi e voi compresi.

Note

[1] http://www.xelibri.com

[2] Things That Think: cose che pensano

[3] Digital Life: vita digitale

[4] Opera nell’area di Chicago

[5] A volte questa è chiamata WPAN dove la W sta ad indicare il wireless, senza fili, per enfatizzare come queste reti siano assimilabili a delle celle di comunicazione quali quelle usate dai telefonini, in questo caso però con una estensione misurate in centimetri, non in chilometri.

[6] Thin film technology: tecnologia a film sottile

[7] Lo stesso che iniziò i lavori che poi sono sfociati nella realizzazione di Internet

L'autore

  • Roberto Saracco
    Roberto Saracco inizia ad appassionarsi di tecnologia molto tempo fa. Formatosi come matematico e informatico è attualmente a capo della Industrial Doctoral School dell’Istituto Europeo dell’Innovazione e la Tecnologia, è presidente della Symbiotic Autonomous Systems Initiative promossa da IEEE-FDC. Ha diretto fino all’aprile del 2017 lo snodo italiano dell’EIT. In precedenza è stato, fino a dicembre 2010, direttore del Future Centre di Telecom Italia a Venezia, cercando di comprendere le interrelazioni tra evoluzione tecnologica, economia e società. È attualmente Senior Member dell’IEEE, dove dirige l’Industry Advisory Board all’interno del Future Directions Committee. Insegna all’Università di Trento. Roberto Saracco ha pubblicato oltre 100 articoli accademici in giornali e riviste specializzate.

Iscriviti alla newsletter

Novità, promozioni e approfondimenti per imparare sempre qualcosa di nuovo

Gli argomenti che mi interessano:
Iscrivendomi dichiaro di aver preso visione dell’Informativa fornita ai sensi dell'art. 13 e 14 del Regolamento Europeo EU 679/2016.