Nei giorni scorsi abbiamo esaminato in profondità l’articolo 50-bis del Ddl n° 773, un emendamento del pacchetto sicurezza varato dal governo che mira a reprimere l’utilizzo di internet per commettere reati di opinione. Dopo le polemiche che hanno accolto l’approvazione in Senato, Alessandro Gilioli ha intervistato il senatore Gianpiero D’Alia, padre della norma contestata. Negli Stati Uniti, quando un dibattito rischia di prendere l’onda delle emozioni, si cerca di tornare prontamente al fact check, all’analisi secca e puntuale dei fatti. Abbiamo provato a fare lo stesso con le dichiarazioni fornite dal senatore D’Alia, il cui contesto può comunque essere fruito nella sua interezza ascoltando l’intervista che anche qui riproduciamo.
Fonte: Piovono Rane, blog di Alessando Gilioli
Sen. Gianpiero D’Alia, al minuto 1’30”: «Poichè non vi è alcuno strumento nell’ordinamento che consente intervento immediato, qualora ovviamente si ravvisi un’ipotesi di reato, cioè qualora la magistratura stia indagando, […] il ministro dell’Interno interviene con uno strumento di natura squisitamente cautelare che serve a evitare che vi sia una moltiplicazione di questi siti o di queste manifestazioni illecite sulla rete.»
FACT CHECK: Il nostro ordinamento dispone già di questi strumenti: ne dispongono sia quello nazionale (la polizia postale già opera attivamente su questo fronte e gli interventi di urgenza sono comunque ammessi anche in virtù del decreto legislativo 70/03, attuazione della direttiva comunitaria sul commercio elettronico 2000/31 CE), sia quello internazionale, a livello di cooperazione penale. Anche qualora il sito che ospita contenuti illegittimi non si trovi fisicamente in Italia, la giurisdizione del nostro paese esiste se il comportamento illecito spiega i propri effetti anche in territorio nazionale. È possibile emettere ordini transfrontalieri diretti ai gestori dei siti imponendo loro di eliminare un contenuto dai server di proprietà. L’oscuramento tramite Dns contemplato invece dal 50-bis, del resto, non si rivolge ai gestori dei siti bensì ai provider, con l’effetto di impedire il traffico nazionale verso il sito che si ritiene ospiti il contenuto illegittimo, mentre lascia che tale contenuto continui a sopravvivere nel sito di origine. Non solo: impedendo l’utilizzazione del servizio a tutti gli utenti italiani lo si impedisce automaticamente anche all’autore del reato con possibili conseguenze per la raccolta dei file di log a fini probatori. Considerando, inoltre, che nel nostro ordinamento vige la separazione dei poteri e che la magistratura già dispone di tutti gli strumenti adatti per potere intervenire, rimane ancora dubbia la necessità di prevedere l’intervento del governo nei confronti dei provider.
Sen. Gianpiero D’Alia, al minuto 2’57”: «Se il gestore del sito non si fa carico di cancellare questi soggetti dal sito è giusto che il sito venga oscurato. Il ministero diffida il gestore. Il gestore poi ha due possibilità: o ottemperare, e quindi cancellare diciamo dal sito i gruppi, oppure non ottemperare. Se non ottempera si rende complice di chi inneggia a Provenzano e Riina e quindi è giusto che venga oscurato.»
FACT CHECK: La procedura puntualizzata in questa occasione, e cioè la preventiva interlocuzione con i gestori dei siti, non è contemplata dalla lettera della norma. E comunque non introduce a sua volta niente di nuovo nel nostro ordinamento, poiché i fornitori di servizi su web (come appunto Facebook) sono già soggetti all’autorità della magistratura italiana e in particolare, fermo restando l’assenza di un loro obbligo di controllo su tutti i contenuti ospitati sui loro server, possono essere imputabili di concorso con l’autore del reato se non si attivano entro i tempi indicati dal magistrato per rimuovere o eseguire l’ordine che viene loro imposto. Un grosso problema non considerato è, tra l’altro, il tempo di ripristino del servizio e come possano chiedere i gestori dei siti un eventuale risarcimento dei danni per interruzione del servizio qualora si dimostrasse un errore giudiziario (sempre se possiamo chiamarlo così dato che l’inibizione all’accesso presso i servizi oscurati sarà effettuato dal ministero dell’Interno). Resta da chiarire a chi spettano le eventuali responsabilità risarcitorie.
Sen. Gianpiero D’Alia, al minuto 3’42”: «Le faccio un esempio: se su YouTube esce un video […] in cui quattro ragazzi picchiano un loro coetaneo disabile – peraltro in questo caso siamo in presenza della rappresentazione di un reato, non è che siamo in presenza di un’apologia […] – è giusto che un sito lo mantenga? Io credo di no».
FACT CHECK: La magistratura, che è anche nel caso dell’art. 50-bis è l’organo di impulso per la rimozione dei contenuti illeciti, ha già adesso tutti i poteri per chiederne la rimozione senza che sia necessario l’intervento del ministero. Inoltre si continua a parlare dei fornitori di servizi e non dei fornitori di connettività. Peraltro, nel caso di Google Video (che il senatore attribuisce erroneamente a YouTube), il contenuto incriminato è stato eliminato non appena la segnalazione è arrivata. Dal momento in cui la legge (parliamo sempre del decreto legislativo 70/03) non ritiene imputabile il provider di servizi per omissione di controllo su tutti i contenuti che esso ospita, a meno che si rifiuti di ottemperare alla richiesta di un magistrato in considerazione dell’ampiezza di comunità come Facebook, l’interruzione di servizio prevista dall’articolo 50-bis sembra costituire una sorta di punizione indiretta e ulteriore nei loro confronti. Ciò perché, caricando un soggetto diverso dal provider di servizi e dall’autore del reato di responsabilità, e cioè il fornitore di connettività, la procedura dell’art. 50-bis finisce per diventare una pena accessoria verso il fornitore di servizi che, in caso di mancata ottemperanza all’ordine della magistratura, è soggetto alle responsabilità che già sappiamo, e in più rischia un pesante danno alla sua attività economica perché viene sospeso l’accesso al servizio da parte di una intera nazione.
Sen. Gianpiero D’Alia, al minuto 4’48”: «I commenti a un blog non è che sono diversi. Se io in un commento dico che le Brigate Rosse hanno fatto bene a uccidere Moro, questa si chiama apologia di reato. Che io lo faccia sul blog, o lo faccia con un telegramma, lo faccia con un bigliettino o lo faccia con un comunicato stampa non cambia, sempre di reato si tratta. E va perseguito. Va perseguito colui il quale se ne fa complice pubblicando queste porcherie.»
FACT CHECK: Tralasciando il discorso già fatto sulla pluralità di forme che possono avere i contenuti nel web contemporaneo e soffermandoci sulla sola ipotesi del blog tradizionale, che sembra essere l’unica considerata dal senatore, è pacifico nel nostro ordinamento che l’autore del blog possa essere chiamato in concorso con l’autore del commento per il reato commesso dal commentatore, a patto che il reato venga accertato e sussistano i requisiti dell’articolo 110 del codice penale. Anche in questi casi, peraltro da tempo noti al nostro ordinamento, non vi è motivo di ritenere che l’intervento della magistratura abbia bisogno dell’ausilio del ministero dell’Interno. Tutte le dichiarazioni di principio fatte dal senatore sono condivisibili, ma sembrano già essere confortate da adeguati strumenti già presenti nel nostro ordinamento e, soprattutto, la pericolosità sociale dei reati individuati dall’articolo 50-bis sembra sproporzionata agli effetti che la norma potrebbe perseguire.