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I Giardini Zen e la Cura del Mac

18 Maggio 1998

I Giardini Zen e la Cura del Mac

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Spesso andiamo alla ricerca del sensazionale quando quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni è il vero evento e, proprio perché già disponibile, autenticamente rivoluzionario.

L’antefatto

Lo scorso mattino, all’alba, appena acceso, forse seccato per la levataccia, il mio PowerBook si è spento senza apparente ragione. Una volta riacceso non avrebbe più trovato il sistema operativo. La cartella di sistema, pur segnalando la presenza di files, appariva vuota. Persino i dischetti del Mac OS rifiutavano di abitare quell’hard disk!

Ultimamente avevo ospitato programmi, cartelle e documenti di tutte le specie. Ogni ospite che veniva, lasciava le sue preferenze e le sue letture. Quando poi se ne andava, rimaneva di lui solo il disordine e masserizie di rifiuti.

Non sapevo più rinunciare a niente e perdevo più tempo ad accumulare di tutto, che a salvare ciò che aveva valore.
Così, nel formattare il disco rigido, ho dato l’addio, assieme a decine di documenti, anche allo scritto che avrebbe dovuto prendere il posto di questo. Naturalmente era qualcosa di assolutamente diverso: non avrei potuto cercare di riscrivere qualcosa, falsificando una finzione in differita. Avrei voluto raccontare il Tutto e le sue origini, arricchendolo all’occorrenza di voli pindarici e digressioni disseminate fra incisi e note.

Ad un tratto il frastuono prodotto dai tentativi di recuperare l’irrecuperabile e dall’esasperazione di vedere nel frattempo, a causa di quel nervosismo, sparire anche quello che non era stato coinvolto dal crash, lasciò il posto ad uno sciamare echeggiante e remoto.
Finché non rimase che il silenzio.
Lo scatto discreto dell’interruttore.
L’avvio pigro del piccolo hard disk.
Il suono pieno che saluta l’accensione.
Poi il brusio tranquillo di silenziosa e un po’ cinica salute di un Macintosh finalmente soddisfatto di essere tornato se stesso, chiaro, leggero, fresco. Un computer zen votato alla bodichitta, la mente pura, libera dal ciarpame dei pensieri, delle informazioni dei narcisismi e degli orpelli mondani.

Disvelamenti

Dopo tanto tempo ecco lo sfondo di base, essenziale, con i suoi puntini celestini simili a pietruzze in un Giardino Zen giapponese.
Li avete mai visti i Giardini Zen? Una delle immagini più classiche li raffigura come una distesa di ghiaia tirata da rastrelli dalle punte grosse che tracciano geometrie illusionistiche, adornate solo di qualche rara pietra. Questi oggetti rari contribuiscono a dare all’illusione delle prospettive rare, sobrie, ascetiche.
Ai due lati del cortile del mio schermo, ecco comparire le due pietre del giardino Mac: la pietra rettangolare con un piccolo puntino al suo interno, simbolo del pieno, lo Yang taoista (il Disco Rigido); e il vaso contrattile come un viscere, simbolo del vuoto, lo Yin (il Cestino).

Un giorno al monaco che chiedeva: “Maestro, qual è la Natura del Buddha?”, il maestro Joshu rispose: “L’uomo che scarica il letame sui campi”. Questi, che in Giappone si chiamano koan, sono motti, battute, aneddoti intimamente enigmatici aventi la funzione ultima di “aprire la mente” degli apprendisti verso punti di vista e prospettive inconsuete. Attraverso lo spiraglio apertosi fra questi macigni apparentemente immutabili, per qualche attimo si può scorgere trapelare qualche raggio di Verità. Un battito d’ali della Realtà. Non quella di tutti i giorni che non è meno virtuale di quelle tecnologiche. Quella immota e dinamica, panfonicamente risuonante il silenzio del Tutto.

Lo zen è un tipo di buddismo che trae origine da quello tibetano (mahayana), per poi diventare, attraverso le influenze taoiste della Cina, scuola Chang: termine da cui deriverà quello giapponese di Zen. Una delle caratteristiche dello zen giapponese è una forte componente allegorica agganciata a delle pratiche quotidiane. Fra le più famose correnti dello zen vi è la scuola degli esteti del tè; ma anche la cucina, il tiro con l’arco, l’arte floreale, e così via, possono diventare altrettante forme per esprimere la concentrazione e dare espressione ai bisogni di meditazione.

L’accezione estetica dell’indirizzo religioso e filosofico è denunciata dalla costante tensione al raggiungimento di un quieto equilibrio armonico, che privilegia lo “stare” al “fare” e la “cura” nella preparazione al “conseguimento” dell’obiettivo.

I Giardini Zen sono espressione di tutto questo: non sono pieni di cose, perché gli oggetti servono solo a far cogliere la “bellezza” del vuoto. E il vuoto nel buddismo non è, come da noi, sinonimo di lutto, di melanconia, ma è piuttosto vicino alla nostra idea di paradiso: uno stato di completezza perfetta. Le prospettive tracciate sulla ghiaia o nel susseguirsi di disvelamenti paesaggistici realizzati in dimensioni minute che danno l’effetto di grandiose aperture, sono le guide per la nostra mente, che come una scimmia agitata tenderebbe a fuggire verso un’inquieta instabilità se non fosse presa per mano da un metodo dolce e rigoroso, come gli asciutti giardini di ghiaia.

Si dice che un professore occidentale si fosse recato da un maestro della scuola del tè. A quest’ultimo egli chiedeva infinite spiegazioni e non era mai soddisfatto delle risposte che il maestro gli dava, mentre con sapiente concentrazione proseguiva nella preparazione del tè. E mentre il professore continuava a parlare e a domandare, il maestro versava il tè ed il liquido traboccava fuoriuscendo dalla tazza, fino a costringere il professore a sbottare irretito, come parlando a un vecchio demente: “Basta: non vede che è ricolma? Non ci sta più!”. A quel punto pare che il saggio rispose: “Vedi, la tua mente è come questa tazza: tu sei saturo delle tue opinioni, delle congetture. Come posso spiegarti lo Zen se prima non vuoti la tua tazza?”.

La Cura del Mac

Voi direte: “…e che cosa c’entra tutto questo con il Mac?”. Il fatto è che l’armonia da Giardino Zen che ho visto in quello schermo di PowerBook ha disvelato ai miei occhi bagliori di Realtà che contrastavano con le idee che avevo fino a ieri.
Michel Serres nota come nella nostra cultura abbiamo sempre teso a riempire tutto. Con antica abitudine alla voracità, le nostre pianure sono divenute un continuo alternarsi di coltivazioni a mais, canali di irrigazione, spazi abitati e complessi industriali. Tanto per fare un esempio, sono quasi dovunque scomparse le strade alberate che portano alle radure segrete o ai prati liberi dei racconti d’inizio secolo. Non c’è nessuno spazio che non venga intensivamente saturato per essere trasformato in un oggetto funzionale, un luogo più che pieno: pregno.

Il vuoto ci spaventa. Ci fa domandare: “E adesso, che faccio? Che ci faccio io con questo? Questo non serve, dunque non “è”! La perifrasi della famosa frase di Cartesio, dove al pensiero è stata sostituita l’azione strumentale, è l’algoritmo della nostra società.
Non pensavano così i taoisti, ed Eraclito con loro. Tutti ricorderanno (anche se non per nome) il simbolo del tai chi, l’emblema stesso del tao, assunto come stemma del macrobiotico, e delle pratiche ispirate all’oriente in generale. Si tratta di un cerchio composto da due pesci intrecciati in direzioni contrapposte fra loro: uno bianco con l’occhio nero e l’altro nero con l’occhio bianco. Per il taoismo, la via (e quindi la vita) sono dati dal susseguirsi del pieno e del vuoto. Giunto al culmine della propria fase ascensionale nel ciclo, diventa generatore in sé del piccolo seme del principio opposto. Noi, invece, siamo coloni manicheisti. Bracchiamo il vuoto sia nello spazio che nel tempo e, negandone ogni dignità, lo inseguiamo per riempirlo di cose. E, una volta finite le cose che servono, ci buttiamo la spazzatura, o ci inventiamo qualcosa di completamente inutile pur di riempirlo.

Ecco dunque una scrivania (di Mac) vuota. Quasi pura. La prima tentazione è quella di riempirla. È più pratico avere tutto subito sotto gli occhi. Scopriremo presto che avere troppo-tutto-insieme sotto gli occhi equivale ad avere difficoltà a discernere qualunque cosa.
Gregory Bateson spiegava l’entropia alla piccola figlia raccontandole che le cose tendono spontaneamente al disordine. Ogni organizzazione che diamo alle cose, nello stesso tempo in cui tende a produrre oggetti (le “cose” che facciamo e quelle che scartiamo), finisce per aumentare il numero dei livelli di organizzazione. Gli oggetti diventano sempre più numerosi e meno significativi, mentre l’organizzazione si fa vieppiù caotica, pesante e pretestuosamente altisonante.

Alla fine gli oggetti che hanno il compito di organizzare il contenuto e quelli che costituiscono quel contenuto tendono ad assumere la stessa natura. Quanto tempo si passa poi a riordinare e a conferire nuove logiche ai files, moltiplicando cartelle/directory, replicando gli archivi, saturando gli spazi.
Un hard disk pieno di “cose”, finisce spesso con l’essere più inutilizzato di uno più povero.

Eccomi dunque di fronte al mio koan. La mente dev’essere spoglia prima di iniziare a scrivere. Voglio un foglio bianco per appoggiare la matita e, con lei le idee. Anche per scrivere sul computer, vorrei un foglio idealmente spoglio, come potrebbe essere Teach Text, al più affiancato da una breve striscia di icone.
Ecco, agli antipodi, il software che viene prodotto sul modello di Microsoft. Sono programmi pieni, concentrati, in cui viene saturato, non solo lo spazio attivo della macchina con un’infinità di strumenti, ma soprattutto quello potenziale, rendendolo disponibile ad infinite aggiunte.

Sapete qual è la differenza fra l’idea di integrazione della Apple che venne chiamata OpenDoc e quella Microsoft nota come OLE? La differenza è che, almeno negli intenti, la prima mette in un cassetto singoli documenti semplici e nell’altro cassetto singoli strumenti atti a operazioni semplici, venendo presi uno alla volta; la seconda invece obbliga ad aprire sempre una valigetta che contiene gli uni e gli altri e ad occupare gli arti e la scrivania per tenere in mano tutti gli strumenti che potrebbero servire, compreso un’infinità che non serviranno mai, ma che ti fanno sentire limitato (vuoto, o mancante) se non li possiedi. L’hard disk della prima si vorrebbe soprattutto pieno di documenti liberati da paternità e dipendenze. Nel secondo caso si cerca di realizzare il parossismo di documenti che contengono programmi di programmi.

Pensateci. Non solo quando aprite un documento Word attivate in latenza anche un piccolo programma grafico, un linguaggio di programmazione, un piccolo data base, un minimo di foglio di calcolo, un programma di correzione grammaticale, un editore di simboli matematici, e così via, ma facendo doppio clic su una cornice di questo contenuta potete caricare sullo stesso documento anche un programma di presentazioni, o un data base, o un foglio elettronico, che nell’attivarsi renderà latenti un altro sistema grafico, un programmino di presentazione, uno di auto istruzione, un altro correttore ortografico, e così via. Come in una folle matrioska, ognuno di questi programmi potrà sempre con il solito famigerato doppio clic, attivare un altro Oggetto Legato ed Embricato.
Il fatto non sarebbe in sé drammatico se non fosse che il mondo pensa in termini di OLE (e per questo il progetto OpenDoc è stato definitivamente bloccato; cancellato).

Ecco dunque la domanda:

“Quello che vogliamo veramente sono computer sempre più pieni, con prestazioni sempre più aggressive in cui sempre più parti servono a far mettere d’accordo le tante parti in più che servono a far funzionare parti che non si usano, ma che però “potrebbero anche servire”, pur richiedendo per essere usate il supporto di corposi manuali…?”
Mentre nella mia mente si affastellano questi pensieri, dal Giardino Zen il mio PowerBook mi scruta, non per mezzo dei due occhi (disco e cestino), né dalla cancellata del menu, ma essenzialmente dal silenzio dello sfondo.

“Prometto che non ti riempirò. Niente programmi nuovi. Magari solo un Claris Works, o neppure, un editore di testo shareware… qualche utility… beh quelle ci vogliono.
Ma poi… se mi mandano un file scritto in Word 6.0, con che cosa lo leggo? Come fare a meno di Photoshop? E come evitare i Plug In?…e qualche estensione, no?…”.

Ora sono i due occhi dello schermo che mi guardano beffardi. Pensano già all’amata nevrosi, quando, invece di riflettere, ponderare ed esprimere pensieri e documenti sobri, sovrapporrò Optimizer a Speed Disk, Dottori di Disco e Fissatori di Files; quando scaricherò tonnellate di bytes che non userò mai dai B.B.S. o da Internet per poi girarli in fretta nel cestino; quando passerò dal provare i trucchi suggeriti da un giornale al mettere pezze su pezze ai loro distruttivi effetti pirotecnici sul mio computer…

Forse ha ragione lui, ma per ora mi limito ad osservare e, ancora per un po’, mi godo questa pace.

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