Copyright e diritto d’autore, ma anche marchi. La diffusione di Internet e la globalizzazione dei mercati ha reso ancora più urgenti e universali le problematiche sulla proprietà intellettuale: ciò che è tutelato in Italia, lo sarà anche in Belgio? Ciò che è violazione in Irlanda lo è anche in Australia? E così via. È necessario per il buon funzionamento dei mercati arrivare a una armonizzazione del diritto a livello internazionale. Ma intervenire a livello internazionale è una procedura lunga e laboriosa, meglio andare per gradi, ovvero per aree geografiche, come con il diritto comunitario – dei Paesi aderenti all’Unione Europea. Uno per tutti, e (si spera) tutti per uno.
Bisogna considerare che il diritto comunitario ha prevalenza sul diritto interno (addirittura può manifestare la propria efficacia anche prima della sua attuazione da parte del singolo Stato membro). Ma anche che il diritto comunitario soffre spesso di “difficoltà di integrazione”, per così dire, disarmonie, quando viene il momento di applicarne e integrarne le disposizioni all’interno delle leggi di ogni Stato membro. Specie su tematiche così fluide e iper regolate come quelle relative alla proprietà intellettuale. Le direttive comunitarie sono come un “la” di un diapason; e non sempre i vari Stati membri possono accordare i loro strumenti facilmente, o senza spezzare corde già tirate.
La proprietà intellettuale all’attenzione della Ue
Fuori di metafora, in questi giorni è stata approvata dal Parlamento Europeo una nuova direttiva, già nota ai più con il nome di Ipred 2 (acronimo di Intellectual Property Rights Enforcement Directive), relativa al rafforzamento delle misure penali di diritto d’autore e proprietà intellettuale in genere. Il testo (qui l’ultima versione, qui gli ultimi emendamenti, il testo coordinato non è ancora disponibile) è frutto di un iter iniziato nel 2005 ed è un “secondogenito”: esiste una Ipred 1, ovvero la direttiva IPR enforcement 2004/48, recepita in Italia esattamente un anno fa, che si occupava dell’armonizzazione delle misure di natura civile e amministrativa per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale.
E se la Ipred 1 ha modificato i provvedimenti cautelari e i poteri di indagine dei titolari di diritti in materia civile, rimaneva aperta la questione del penale. Ipred 2 fin dall’inizio è stata accompagnata, come oramai è prassi per ogni intervento in materia di diritto d’autore e affini, da critiche, polemiche, timori e diversi malcontenti (tra cui la Law Society britannica, lo Stato olandese e il Max Plank Institute, sfociati in numerose forme di attivismo) e comunque tutti relativi alla versione precedente della direttiva. Dopo gli ultimi emendamenti della commissione presieduta dal parlamentare italiano Nicola Zingaretti, alcune polemiche sulla natura troppo restrittiva della direttiva si sono sedate. E altre questioni, ovviamente, si sono aperte. Due gli elementi di forte dibattito all’interno dei singoli Stati: l’esclusione delle violazioni da parte di singoli utenti senza scopo di lucro e l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza in capo ai provider, entrambe conquiste presenti nella nuova versione della direttiva.
Ulteriore elemento di novità degli ultimi emendamenti, l’esclusione della disciplina brevettuale dal campo di applicazione della direttiva. L’esclusione è stata giustificata, nelle parole della relazione di Zingaretti, dalla complessità della maggior parte dei progetti di ricerca dove la violazione brevettuale è altamente probabile: prevedere una sanzione penale rischierebbe di disincentivare la ricerca – cosa che nessuno ovviamente vuole. Anticipate le buone notizie, analizziamo quindi i contenuti della direttiva Ipred 2 individuando quali sono le maggiori innovazioni che la riguardano e quali i punti critici.
Contraffazione e pirateria su scala commerciale
La direttiva si occupa di reprimere i reati di contraffazione e la pirateria riguardanti tutti i diritti di proprietà intellettuale. In particolare, nel campo di tutela di Ipred 2 sono comprese le violazioni di contraffazione e pirateria dei prodotti medicinali e del settore audiovisivo (affrontato dalla direttiva 98/84), i diritti del costitutore delle banche dati, i diritti d’autore e i diritti connessi, i diritti sulle topografie di prodotti a semiconduttori, diritti relativi a disegni e modelli, indicazioni geografiche, nomi commerciali. La direttiva intende armonizzare le legislazioni riguardo le pene detentive, l’ammenda e la confisca dei beni utilizzati per effettuare le violazioni.
La direttiva definisce il concetto di “violazione commessa su scala commerciale”, per la quale si intende ogni violazione di un diritto di proprietà intellettuale effettuata per ottenere vantaggi commerciali, con esclusione degli atti effettuati dagli utenti privati per finalità personali e non lucrative. La punibilità stabilita dalla direttiva è prevista, quindi, per soli i casi di contraffazione dei marchi (consistente nell’utilizzo di un segno identico al marchio in relazione a merci o servizi identici a quelli per cui il marchio è registrato) e di pirateria che sia stata effettuata in modo intenzionale e su scala commerciale, come già era stato previsto dall’art. 61 degli Accordi Trips. Sembrano esclusi dalla punibilità, insomma, i singoli utenti e le finalità personali. Nonché i provider, per i quali sono fatte salve le norme che stabiliscono l’assenza di un obbligo generale di controllo.
Le pene fissate
La direttiva fissa, all’art. 5, la pena detentiva massima (4 anni) per i reati commessi a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, ovvero siano commessi nell’ambito di una organizzazione criminale oppure comportino un rischio per la salute o la sicurezza delle persone. Per le altre ipotesi, invece, la direttiva rimette agli Stati membri la fissazione della pena detentiva, limitandosi a disporre che essa debba essere efficace, proporzionata e dissuasiva. Fissa, però, il massimo delle pene pecuniarie (100.000 euro per i casi meno gravi, 300.000 euro per gli altri casi).
Interessante è il comma 2 bis dell’art. 5, introdotto negli ultimi emendamenti. Nel fissare il livello delle sanzioni, infatti, gli Stati membri devono tenere conto dell’eventualità che i reati previsti siano già stati commessi dalla persona fisica o giuridica in un altro Stato membro. La previsione sembrerebbe richiamare l’istituto della “recidiva aggravata” e cioè la situazione in cui il reo ha commesso un delitto non colposo della stessa indole di un delitto precedente nei 5 anni dall’irrevocabilità della condanna precedente. È questo un elemento che va nella direzione di un impegno della Comunità Europea a contrastare le organizzazioni criminose, “recidive” appunto, o professionali o abituali, e che operano a un livello transnazionale.
Procedibilità dei reati e contributo alle indagini
Due le novità quanto ai “poteri” dei titolari dei diritti. La prima è la procedibilità d’ufficio. La direttiva stabilisce che le azioni penali per le violazioni previste debbano essere soggette alla procedibilità d’ufficio, quantomeno quando i fatti di reato siano stati commessi nel territorio dello Stato membro. In questo caso non si tratta di una assoluta novità per il nostro ordinamento, dove la procedibilità per i reati di diritti d’autore è già di regola d’ufficio, così come per i reati contro la contraffazione previsti dal codice penale (artt. 473, 474 e 517 c.p.) mentre per la proprietà industrialeresiduano ipotesi di procedibilità a querela (si veda l’art. 127 del Codice della proprietà industriale).
L’art. 6 bis prevede inoltre il dovere per gli Stati membri di punire il ricorso abusivo a minacce di azioni penali effettuato dal titolare di diritti. La disposizione è vaga, e ciò certamente gioca a sfavore dell’esigenza di armonizzazione della legislazione comunitaria. Salva l’autonomia del reato di minacce, il ricorso abusivo all’autorità giudiziaria è già sanzionato nel nostro ordinamento in via generale attraverso i reati di calunnia (chiunque incolpa qualcuno di un reato sapendolo innocente) e di simulazione di reato (chiunque afferma falsamente che è avvenuto un reato al solo fine di fare instaurare un processo). Probabilmente in sede di recepimento della disposizione si dovrà valutare se creare ulteriori ipotesi simili alla calunnia o alla simulazione di reato specifiche per gli abusi dei titolari di diritti di proprietà intellettuale. Specie quando tali abusi raggiungano l’effetto, ad esempio, di turbare la concorrenza o di consolidare una posizione dominante.
La seconda è che la direttiva prevede le cosiddette squadre investigative e i poteri di partecipazione alle indagini dei titolari di diritti. Tale elemento è quello che ha destato maggiori preoccupazioni. In molti si sono detti preoccupati che questa “partecipazione” potesse influenzare unidirezionalmente l’indagine. In sede di emendamento, va detto, i poteri di partecipazione sono stati molto limitati. Innanzitutto l’intervento dei titolari dei diritti non è garantito indiscriminatamente per tutti i tipi di indagine ma solo quando l’azione è portata avanti da una cosiddetta “squadra comune”. Sono squadre (previste dalla decisione quadro Gai 2002/465) che vengono costituite quando le indagini condotte da uno Stato membro comportano inchieste difficili e di notevole portata o quando più Stati membri svolgono indagini su reati che, per le circostanze del caso, esigono un’azione coordinata e concertata negli Stati membri interessati. Tali squadre sono comunque limitate nel tempo e per uno specifico scopo.
In secondo luogo, quanto all’ampiezza dei poteri dei titolari di diritti, la direttiva specifica inoltre che essi possono solo fornire informazioni alle squadre, mentre nella versione precedente agli emendamenti avevano il potere di partecipazione alle indagini. La loro attività deve, comunque, essere accompagnata da adeguati meccanismi di salvaguardia per fare in modo che tale contributo non comprometta i diritti dell’accusato, ad esempio pregiudicando l’accuratezza, l’integrità e l’imparzialità delle prove. Partecipare sì, ma senza esagerare.
La contraffazione e la pirateria
L’art. 1 comma 2 bis della direttiva circoscrive l’ambito di applicazione della direttiva stessa a due soli ambiti: la contraffazione dei marchi e le ipotesi di pirateria nel diritto d’autore. Ecco che cosa intende la direttiva con contraffazione:
- la detenzione senza legittimo motivo, l’importazione sotto qualsiasi regime doganale o l’esportazione di merci recanti un marchio contraffatto;
- l’offerta alla vendita o la vendita di merci recanti un marchio contraffatto;
- la riproduzione, l’imitazione, l’utilizzazione, l’apposizione, la soppressione, la modifica di un marchio;
- la consegna deliberata di un prodotto o la fornitura di un servizio avente un marchio registrato diverso da quello del prodotto o servizio richiesto.
La contraffazione in Italia è prevista come reato dall’art. 473 del codice penale, punita con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a lire quattro milioni. Alla stessa pena soggiace chi, senza essere concorso nella contraffazione o alterazione, fa uso di brevetti, disegni o modelli contraffatti o alterati. Mentre in caso di semplice introduzione o messa in commercio di prodotti con segni falsi nel territorio italiano, invece, la pena prevista (art. 474) è la reclusione fino a due anni e la multa fino a lire quattro milioni. I due articoli (473 e 474) saranno presumibilmente emendati al momento dell’attuazione della direttiva da parte del governo italiano, e sostituite con le pene già accennate (massimo 4 anni per i reati più gravi, e pene pecuniarie da 100.000 a 300.000 euro).
Per quanto riguarda la pirateria, curioso: la direttiva non ne dà alcuna definizione. Sembra essere un problema, definirla compiutamente e giuridicamente: manca anche nella legge italiana in materia, sebbene il termine sia entrato nell’uso comune per la duplicazione abusiva di materiali protetti, specie da diritto d’autore. L’art. 1 comma 2 ter della direttiva specifica comunque che «lo scambio senza fini di lucro di un contenuto acquisito legalmente tra singoli è escluso dal campo d’applicazione della presente direttiva», quindi le sanzioni e le relative misure procedurali saranno applicate solo se la violazione è effettuata su scala commerciale. La direttiva prevede non solo il fine di lucro ma anche la considerevole perdita diretta da parte del titolare dei diritti. In Italia, l’entità della perdita rileva sulla entità della pena: è una aggravante, se è ingente, è una attenuante, se è lieve.
L’eccezione per gli usi di critica, discussione e ricerca
Quindi, ricapitolando. La direttiva comunitaria non si applica alla violazione dei diritti d’autore per scopi non commerciali (ma non impedisce che il singolo Stato possa prevederlo; e inoltre rimangono sempre le possibilità di perseguire dal punto di vista civile e amministrativo). C’è una sottolineatura molto forte sulla repressione delle attività delle associazioni criminose che operano a livello comunitario e transnazionale e che su contraffazione e pirateria hanno creato un mercato nero parallelo. C’è quindi l’introduzione, anche per gli Stati membri che non la prevedevano, della procedibilità d’ufficio e della possibilità di fornire nelle indagini più complesse informazioni da parte dei titolari dei diritti alle indagini – punti che sono i più ambigui, visto che non è del tutto chiaro come verranno concretamente applicati.
Ma ci sono anche elementi indubbiamente positivi – per i singoli utenti e per le richieste di molti di una più libera e meno punitiva circolazione della conoscenza, anche attraverso la Rete. Si tratta dell’art. 3 comma 1 ter introdotto dalla commissione Zingaretti che ribadisce come le norme sulle utilizzazioni libere non debbano entrare nel campo d’azione della direttiva. Con utilizzazione libera si intende l’uso equo delle opere protette (il cosiddetto fair use). Ovvero la riproduzione in copiein copie o su supporto audio o con qualsiasi altro mezzo, a fini di critica, recensione, informazione, insegnamento (compresa la produzione di copie multiple per l’uso in classe), studio o ricerca. Ebbene. Tutto questo, si ribadisce nella direttiva, non è “qualificato come reato”. Nelle parole della relazione che accompagna l’emendamento: «Professionisti quali i giornalisti, gli scienziati e gli insegnanti non sono criminali, così come i giornali, gli istituti di ricerca e le scuole non sono organizzazioni criminali. Questa misura non pregiudica tuttavia la protezione dei diritti, in quanto è possibile il risarcimento per danni civili». Va detto che il fair use preesisteva alla direttiva – che si limita, con un po’ di ridondanza, a confermare che libera era e libera rimane, l’utilizzazione ai fini di critica, insegnamento, informazione e così via. Come si dice: melius abundare.