Non dobbiamo parlare bene noi dei nostri libri, ma siamo felici di farlo dei nostri autori. Alice Avallone è una fucina di sorprese, ha una vita interessante e possiede un sapere duttile e trasversale. Intervistarla è stato un piacere.
Apogeonline: A leggere indice e primo capitolo liberamente scaricabili del tuo nuovo libro, sembra uno spettacolo di fuochi artificiali: Napoleone, Lewis Carroll, Martin Gardner, Sam Loyd, i detti zen, le Lezioni americane di Calvino, i supereroi… ma il digital strategist non era un mestiere noioso e frustrante?
Alice Avallone: E invece no! Costruire strategie è un’attività ludica e creativa. Ogni volta si accende una sfida diversa: abbiamo un obiettivo davanti e tanti ingredienti sul tavolo da scegliere e combinare tra loro per raggiungerlo. Questo libro contiene parecchi riferimenti a settori che, apparentemente, sembrano aver poco a che fare con il digitale. Anche la stesura dei capitoli è stata un processo creativo, poiché tanti diversi elementi, dalla matematica alla semiotica passando per la filosofia, mescolati tra loro mi hanno permesso di raggiungere l’obiettivo: spiegare come si pianifica una strategia digitale e da cosa è composta.
Come si è sviluppato attraverso il tempo e l’esperienza il tuo (ricchissimo) immaginario di tessitrice di strategie digitali?
Ogni atto creativo, e dunque anche ogni strategia digitale, nasce da un problema che deve essere risolto. Quando ho finito il liceo nel 2003, ho iniziato a fare la pendolare tra Asti e Genova per frequentare l’università. Erano viaggi interminabili e spesso non sapevo come occupare il tempo. Un giorno ho iniziato a fotografare le persone in treno e per ciascuna di loro inventavo un nome e una breve storia. Dopo qualche tempo, decisi di aprire un blog su Splinder e chiamarlo Visioni Binarie. Avevo risolto il mio problema e così ho iniziato poi a risolvere i problemi di comunicazione degli altri. Solo negli ultimi anni ho scoperto che questa mia attitudine aveva a che fare con la professione del digital strategist.
C’è un nesso tra diventare bravi nelle strategie digitali e viaggiare? La tua seconda identità di direttore di Nuok ha influenzato il tuo modo di lavorare?
Il viaggio ci fa uscire dalla nostra comfort zone e ci espone a più problemi che richiedono soluzioni: come passare da un terminal all’altro, dove trovo un ristorante aperto a mezzanotte, in che modo posso orientarmi in una città mai vista prima. Viaggiando, senza nemmeno accorgercene, mettiamo in atto continue strategie. Ancora una volta, anche Nuok nasce da un problema iniziale: mi stavo trasferendo a New York e volevo raccontare alla mia famiglia e ai miei amici quello che vivevo. Man mano che conoscevo coetanei in gamba, li coinvolgevo a scrivere e fotografare la città. A distanza di quasi sette anni, Nuok è diventato un magazine con sessanta redattori in tutto il mondo, da Lubiana a Wellington. È la mia palestra creativa, dove sperimento format narrativi e, chiaramente, strategie digitali.
Diventare bravi con le strategie digitali potrebbe avere ricadute positive anche nel lavoro tradizionale o addirittura nella vita privata? Quali sono i soft skill del digital strategist?
Se ci abituiamo a prestare attenzione a quante strategie mettiamo in atto ogni giorno, inizieremo a migliorarci e sì, anche avere ricadute positive nei rapporti con gli altri e con noi stessi. Ma non è tutto rose e fiori: dietro l’angolo c’è sempre l’imprevedibile, online e offline. Ecco perché nel libro, parlando dell’ascolto e del monitoring della Rete, ho spiegato l’importanza di avere sempre un piano di pronto intervento d’emergenza, proprio come in caso di calamità naturale. Prevedere le mosse dell’avversario è una delle specialità dei giocatori più bravi.
Anche senza fare nomi, ci racconti qualcosa dell’esperienza di strategia digitale più positiva che hai vissuto? E poi di quella più disperata e fallimentare? Che cosa ti ha insegnato?
Tra le più positive, paradossalmente, ci sono alcuni clienti che scelgono in modo consapevole di non essere presenti sui social media. O almeno, non in tutti come prassi vuole. Tra l’altro, non è detto che una strategia digitale debba essere costruita sui social media tradizionali: ci sono decine e decine di altri ingredienti da non sottovalutare per una comunicazione, come il digital PR, le newsletter e nuovi strumenti informativi come Telegram. Tutto dipende, ancora una volta, dal nostro obiettivo.
Tra le più negative, ci sono invece alcune realtà a conduzione familiare che, dopo aver impostato una strategia con i fiocchi, chiamano il cugino del cugino, senza alcuna esperienza e professionalità, per sviluppare un sito web, scrivere testi o peggio ancora, gestire una community online.
Qual è la situazione aziendale ideale per cimentarsi con un progetto digitalstrategico? Piccola, grande? Tradizionale, stile startup? Eccetera.
Per la mia esperienza, gli ambienti migliori sono quelli che hanno più imposizioni, restrizioni e paletti da rispettare, e generalmente questi corrispondono alle realtà istituzionali e alle pubbliche amministrazioni. Essere bravi quando si ha campo libero è un gioco da ragazzi; portare a casa risultati quando ci sono tanti ostacoli da aggirare è tutta un’altra storia. Anche avere budget molto piccoli da ottimizzare è un limite altrettanto stimolante per un digital strategist.
Come si affronta la resistenza al cambiamento? Quella personale e quella altrui.
Lasciandosi andare alla corrente e insegnandolo a chi ci sta vicino. Nell’appendice del libro mi soffermo proprio sulla flessibilità, come valore che dovrebbe contraddistinguere il nostro approccio nella vita lavorativa e personale. Resistere al cambiamento non porta a niente, perché sono processi inevitabili. E se mai questo dovesse portarci a una crisi, ecco che possiamo rifarci alla lingua giapponese. La parola crisi è comporta da due kanji: il primo significa pericolo, il secondo opportunità. I cambiamenti sono sempre positivi, solo che ce ne accorgiamo sempre dopo.
C’è qualcosa che non hai avuto spazio di trattare nel libro e vuoi regalare ora ai nostri lettori?
Dopo la stesura, ho pensato a come tutto sia ciclico, anche nel digitale. Cambiano gli strumenti, diventano più raffinati e garantiscono esperienze senza dubbio più immersive di una volta ma, sotto sotto, le modalità di coinvolgimento e di narrazione rimangono universali. Faccio subito un esempio concreto: pensiamo alle prime enciclopedie multimediali su CD-ROM. Ricordate? C’erano testi, immagini, anche i suoni, come quelli dei versi degli animali. E soprattutto, collegati ad alcuni contenuti c’erano i rivoluzionari Virtual Tour, all’interno dei palazzi reali o delle stanze dei Faraoni. Si trattava di una serie di foto che, accostate tra loro, davano all’utente la possibilità di spostarsi avanti e indietro, sopra e sotto. Erano gli antenati di Google Street View prima e dei video a 360° adesso. Ci evolviamo, ma le emozioni che proviamo sono sempre le stesse. È una riflessione che mi porta a pensare che le strategie digitali non hanno bisogno di fuochi d’artificio per essere efficaci.