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Che cosa sono i Big Data
Per avvicinarsi ai Big Data è inevitabile capire prima di che si tratti. Sono dati che possiedono speciali caratteristiche: sono normalmente di grandi dimensioni, sono molto vari nel loro formato e vengono generati (e quindi vanno analizzati) con una notevole velocità. Date le loro caratteristiche, i Big Data vanno trattati in maniera specifica, ovvero attraverso tecnologie particolari (tanto per capirci, il computer di casa con Excel potrebbe non farcela) e usando metodologie di calcolo pensate apposta per loro (l’algebra e la statistica tradizionale non ci basteranno). Ci si può chiedere quanto debbano essere big questi dati, per rientrare nella definizione. Non esiste una soglia minima di dimensioni. Sono sicuramente big i dati che Katie Bouman, ricercatrice del Massachusetts Institute of Technology, ha usato per generare la prima immagine di un buco nero. Addirittura 5 petabyte di informazione, ovvero 5 milioni di gigabyte provenienti da radiotelescopi sparsi in tutto il mondo. Sono big anche i dati video caricati su YouTube ogni minuto (circa 3.000 gigabyte) o quelli provenienti dai sensori di una singola automobile intelligente come una Tesla (oltre un gigabyte al secondo). Il bello è che le tecniche per l’analisi dei Big Data possono essere molto utili anche su database di dimensioni più piccole, come quelli che usiamo nelle nostre aziende. La buona notizia quindi è che tutti noi possiamo beneficiare di questi strumenti analitici, pur avendo a che fare quotidianamente con problemi più semplici rispetto a quello di visualizzare i buchi neri.
Strumenti per fare Big Data Analytics
Non esiste uno strumento unico per creare valore dai Big Data. Il mio consiglio è costruirsi una cassetta degli attrezzi del mestiere, selezionando i vari strumenti in base al proprio ruolo e ai business need della propria azienda. In Big Data Analytics spiego come usare KNIME, un software gratuito che sta raccogliendo grande successo negli ultimi anni in quanto molto facile da imparare ed estremamente versatile. Per chi vuole approfondire, nella cassetta degli attrezzi andranno anche uno o più linguaggi di programmazione (come Python e R) e un software per la visualizzazione dei dati, come PowerBI o Tableau. Anche i fogli di calcolo come Excel possono avere il loro ruolo. Chi usa Excel può continuare sicuramente a farlo, estendendone e automatizzandone le funzionalità con KNIME e altri strumenti più moderni.
Che cosa succede in azienda quando arrivano i Big Data
Negli anni un’organizzazione costruisce una serie di verità relative alla conoscenza del proprio business, dei propri clienti, del mercato e dei competitor. E poi arrivano i Big Data, con un carico dirompente di novità, di evidenze talvolta inaspettate, che solo una macchina avrebbe potuto identificare attraverso la valutazione congiunta di grandi quantità di dati. Gli schemi si rompono e le strategie messe in discussione. È qui che ci si gioca la partita: le organizzazioni più data-driven usano queste opportunità per migliorare e si rimettono in discussione. Le altre proseguono per inerzia lungo la loro strada, relegando l’analisi dei Big Data a tecnicismi informatici. La sfida è proprio trasformare profondamente l’azienda per renderla compatibile con un uso ampio e oculato dei dati. Non c’è un reparto o una funzione aziendale che si debba occupare in esclusiva di questa trasformazione data-driven. Tocca a tutti, seppur in maniera diversa in base al proprio ruolo. Nessuno può sentirsi escluso perché è il lavoro di tutti a venire impattato. I primi ad essere coinvolti sono necessariamente i top manager dell’azienda. Sono loro a portare chiarezza sulla centralità strategica dei dati e a prendersi i rischi opportuni. Nessuna funzione aziendale può tirarsi indietro, dalle vendite alla finanza, dalle risorse umane alla logistica: ogni manager può rintracciare – con la giusta attenzione – delle opportunità per beneficiare dall’uso massivo dei dati. L’importante è non tirarsi indietro ed essere pronti a sporcarsi le mani con dati e algoritmi, indipendentemente dalla propria funzione aziendale. I manager che riescono a sfruttare i Big Data al meglio sono proprio quelli che li hanno visti in azione, ne masticano il vocabolario e, magari, ne hanno sperimentato in prima persona complessità e opportunità. E poi ci sono coloro i quali i dati li toccano più da vicino quotidianamente: gli analisti, gli ingegneri dei sistemi, gli sviluppatori, i data scientist…
Che cosa fa un Data Scientist in azienda
La figura del Data Scientist va sicuramente demistificata. Si parla spesso del suo ruolo in modo vago e offuscato. Sembra quasi che possa fare di tutto: predisporre i data center e la data architecture, raccogliere dati, ripulirli, organizzarli in data lake, analizzarli, visualizzarli, interpretarli, e ancora programmare nuovi algoritmi, predisporre interfacce e così via. Nelle aziende più strutturate i data scientist si occupano di identificare le tecniche di Data Analytics appropriate per l’esigenza di business da gestire e collaborano con gli analisti e con l’IT per rendere il processo sostenibile e scalabile. Sarebbe molto sbagliato pensare che l’unico modo per iniziare a usare i Big Data in azienda sia sostituire i propri collaboratori con Data Scientist acquisiti esternamente. Anzi, sarebbe molto controproducente in quanto il dato e il suo significato nell’ambito del business hanno pari importanza e l’esperienza di chi conosce in profondità il significato di business dei dati è un ingrediente essenziale del successo di un’iniziativa di Data Analytics. Chi già si occupa di dati in azienda può sicuramente investire il proprio tempo a imparare nuovi strumenti e tecniche, facendo così un upgrade delle proprie competenze. In effetti, una delle sfide più grandi per le aziende è di creare e sostenere percorsi di retooling dei propri dipendenti più senior, i quali hanno molta esperienza di business ma poca dimestichezza con i temi della data science.
Come si studia per diventare Big Data Analyst o Data Scientist
Vi sono almeno due strade possibili: una è il percorso di studio basato su lezioni frontali, una via resa sempre più semplice data la crescente offerta di master professionalizzanti in università e accademie private. L’altra è il self-learning attraverso videocorsi, libri e competizioni online. Diversi data scientist hanno intrapreso questa professione spinti dalla propria curiosità e passione e hanno iniziato da analisti freelance. Ho conosciuto diversi professionisti che hanno deciso di rimettersi in gioco e di cambiare carriera, iniziando a studiare i temi della data analytics, partendo prima dalla lettura di libri e blog e intraprendendo, poi, un percorso più strutturato in università. La richiesta è ampia e supera l’offerta del mercato del lavoro. Secondo le rilevazioni dell’Osservatorio Big Data Analytics & Business Intelligence del Politecnico di Milano, il 77% delle grandi aziende segnala una carenza di risorse interne dedicate alla Data Science. Sicuramente è un buon momento per intraprendere questo tipo di percorso professionale. Mi piace pensare che il mio libro possa essere un punto di partenza utile per abbracciare questa carriera, ma questo lo lascio decidere ai lettori.
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